Scalocchio, un antico "tempio umbro-etrusco"?



di Ferdinando de Rosa e Floriana Bartolucci 



Abbazia di San Benedetto di Scalocchio (immagine tratta dal sito www.iluoghidelsilenzio.it)

    Il 26 agosto un gruppo di amici, ringraziamo Lanfranco Forlucci per avere organizzato la magnifica giornata dedicata alla cultura ed all'ambiente, si è inerpicato con alcune auto lungo una strada resa polverosa dalla grande siccità di questo agosto. Si imbocca svoltando a destra lungo la SS Apecchiese poco oltre l'abitato di Apecchio (PU) in direzione Parco Eolico e Scalocchio.

Parco eolico sul Monte dei Sospiri in Apecchio

    La strada è circondata dalle verdi vallate appenniniche che vanno dal territorio del comune di Apecchio fino a quelli di S. Angelo in Vado e Città di Castello (Scalocchio fa parte di questo Comune). I panorami sono  aperti  ed appaiono in lontananza ondulati nella foschia mattutina, sia verso oriente in direzione del Mare Adriatico che verso occidente nel cuore dell'attuale Umbria.
    Queste vallate erano abitate in epoca preromana dalle tribù degli antichi Umbri, che facevano capo alla comunità di Gubbio detta TOTA IKUVINA, la quale aveva colonizzato tutta la zona montana a cavallo dell'Appennino da Urbania a Gubbio in un susseguirsi di colline e vallate ben adatte alla vita agro-pastorale di quel popolo.
    Ci accoglie il valico del Monte dei Sospiri, con una leggera brezza ancora fresca a quell'ora di mattina, ma già pronta ad arroventarsi nella calura estiva, e con il lento ruotare delle pale eoliche sotto le quali facciamo una sosta con relativa discussione ambientale, dividendoci a favore o contro questo progetto di energia rinnovabile.
Introduco una breve storia della località di Scalocchio, verso cui siamo diretti proseguendo con la nostra carovana di auto fra la polvere bianca ed il verde delle macchie da cui trapelano improvvisi raggi di sole accecante.
    "L'Abbazia di Scalocchio dedicata a San Benedetto è situata a 600 m s.l.m., contrapposta a quella di Lamoli dedicata a San Michele Arcangelo, ed è stata costruita nel VI-VII sec. anche se abbiamo la prima testimonianza scritta risalente solo all'anno 951.

Abbazia di San Benedetto di Scalocchio, Città di Castello (PG)
 La dedica ad un santo dell'iconografia bizantina (Benedetto) ed uno di quella longobarda (Michele Arcangelo) ci permette di ricordare il Bizantino> che collegava il Ducato Romano e l'Esarcato di Ravenna durante la dominazione longobarda dell'Italia.
Il Corridodio passava lungo la via Flaminia e si dirottava nei suoi diverticoli lungo le vallate di Apecchio e Cantiano durante le frequenti interruzioni della viabilità a causa delle inagibilità dei ponti o della strada.
    Il giovanissimo Romolo Augustolo, ultimo Imperatore di Roma, era stato deposto da Odoacre, capo dei soldati germanici appartenenti alla tribù degli Eruli, a loro volta scacciati dai Goti giunti in Italia dove si stanziarono nel 489.
L'Italia Centrale fu terreno di scontro per una ventina di anni, quando l'Imperatore d'Oriente Giustiniano decise di riconquistare l'Italia in mano a Vitige, Re dei Goti, iniziando una guerra nel 535 e portandola a termine nel 553, con la vittoria del generale Narsete che sconfisse Re Totila a Tagina (Gualdo Tadino).
Petra Pertusa (il Furlo) passò di mano molte volte, nel 538 fu strappata ai Goti, che tre anni dopo la rioccuparono con Totila per perderla definitivamente con la sconfitta finale.
Successivamente nel 570 i Longobardi provenienti dalla Lombardia irruppero in Toscana e poi nelle nostre terre occupando Luceoli, Calle e Petra Pertusa.
    A partire dalle fortificazioni militari, innalzate per la difesa di Roma lungo i passi appenninici dai Bizantini durante la Guerra Gotica e nel periodo di dominazione longobarda, inizia la trasformazione nei primi castelli e rocche, attorno alle quali si sono aggregate le contee medioevali.
    Il più importante centro abitato Calle posto sulla Via Flaminia, e quello posto sulla Via Tiberina Tifernum, continueranno per qualche secolo le schermaglie di confine che preesistevano tra le tribù umbre ikuvine e tifernati nonchè gli Etruschi.
    Il 23 luglio 1216 gli uomini del Castello di Carda si sottomisero a Cagli come pure l'Abate di S. Pietro di Massa, nonché Rinaldo Pocassai e Bernardo di Gualtiero che possedevano i Castelli di Massa, Monte Nerone, Roccabianca e Monte Migliario, i quali fecero atto di sottomissione promettendo di pagare al Comune 8 libbre ravennati all'anno.
    Nel 1270 il Castello di Carda era stato dato in enfiteusi al Card. Ottaviano Ubaldini dal Vescovo di Città di Castello e nel 1282 Tano Ubaldini fu nominato Signore della Carda
    La lotta dei Callensi con i Tifernati ebbe una pausa nel 1279 per interessamento del Podestà di Cagli Orso Orsini, nipote di Papa Niccolò III, ben felice di accontentare anche sua sorella che aveva sposato Alberico nobile cagliese.
    Il patto fu negoziato nel Castello di Apecchio stabilendo anche i confini, ma le contestazioni  proseguirono per tutto il periodo medioevale fra Cagli e Città di Castello. Ognuno rivendicava  parte delle terre che erano poste a cuscinetto fra i due Comuni e che erano state infeudate agli  Ubaldin nel 1196 da Enrico VI.
    Tutto il territorio collinare e l'insieme delle vallate, adatte all'allevamento del bestiame ed alla coltivazione, partendo dal Metauro al Marecchia fino al Tevere, costituirà la Massa Trabaria che in Apecchio  avrà il sottonome di Vaccareccia.
    La zona ha una storia che precede l'Impero Romano, infatti era occupata dagli antichi Umbri e dai loro vicini Etruschi con i quali avevano rapporti di buon vicinato ed erano separati da confini molto labili, tranne quando il confine era un grande fiume.
    Gli Etruschi hanno avuto come centro di riferimento della loro cultura il triangolo compreso fra il mare Tirreno ed i Fiumi Tevere e Arno, mentre gli Umbri occupavano l'altra sponda del Tevere e soprattutto le vallate orientali ed occidentali dell'Appennino. Le varie comunità che facevano parte del NOMEN Umbro erano chiamate da loro stessi TOTAE ed erano a loro volta composte da TRIFU (tribù).
    Gli Umbri erano insediati nel territorio a partire dall'attuale Romagna dove c'era la Tota dei Sarsinates, confinante a sud con quella dei Tifernates, poi c'era quella degli Ikuvini di Gubbio e nel versante orientale verso l'Adriatico erano stanziati i Pitinates Pisuertes (attuale Macerata Feltria) ed i Pitinates Mergentini (Pitinum Mergens, nella zona di Pole di Acqualagna)  ed ancora più a sud i Camertes di Camerino.
    Vicino a Scalocchio c'è la Piana di San Martino in cui è stato ritrovato un sepolcro umbro-etrusco  e questo ci fa pensare che siamo in un territorio che presenta sicuramente una influenza culturale mista tipica delle zone di confine.
    L'Abbazia è stata costruita su un breve triangolo di terra pianeggiante, fra i torrenti Bolina e Scalocchio che, come tutte le zone situate fra due corsi d'acqua, era ritenuta sacra. Questi torrenti portano acqua perenne, come testimoniato da questo momento di una grande siccità in cui ancora si vede gorgogliare una portata stimabile in 4-5 l/sec cad. che più a valle convoglia dando vita al Biscubio.
    Siamo nel territorio che verso Apecchio apparteneva alla gente di Nomen umbro della Tota degli Ikuvini, e verso Città di Castello a quella dei Tifernates della vallata del Tevere (antica Tifernum) che appartenevano allo stesso nomen umbro ma erano più contaminati ed integrati con i vicini confinanti Etruschi.
    Il nome Scalocchio secondo alcuni potrebbe derivare da un vocabolo slavo "Scalkolje" significante pietraia, ma al sottoscritto non sembra che si tratti di una zona che presenti questa caratteristica, quindi ritengo che debba escludersi questa ipotesi!
    E' mia convinzione (espressa fin dal 1988 in "La via delle Rocche-Il corridoio Bizantino", Urbania 1988) invece che il nome sia di origine etrusca, derivato da una divinità ctonia (sotterranea) di cui abbiamo conoscenza presso gli etruschi ed in questo territorio umbro di confine, cioè CALE.
    Il nome Scalocchio deriva da cale locus (luogo di cale), cioè il luogo che era il centro dell'area sacra dedicata a Cale, infatti questo toponimo lo ritroviamo nella stessa Cagli (il cui nome antico era appunto Cale). L'attuale pronuncia moderna risale al periodo dell'occupazione da parte delle truppe del nipote di papa Borgia, detto il Valentino, che pronunciavano la consonante con la tipicamente francese.
    Troviamo un altro luogo dedicato a Cale presso Cantiano, di fianco alla Flaminia dove c'è un'altura chiamata Mocale (appunto mons cale).
    Oltre a questi riferimenti toponomastici ci sono quelli archeologici dedicati a questa divinità etrusca ed infatti in una scritta su un cippo rinvenuto a Perugia compare la parola che significa  a cale> e nel fegato di bronzo rinvenuto a Piacenza. Questo veniva utilizzato per le divinazioni da parte degli aruspici etruschi e pertanto presentava scritti i nomi delle divinità di riferimento nelle diverse parti anatomiche; qui troviamo una parte del fegato con la scritta intestata alla divinità <Cale>.
    Nel versante appenninico gli Umbri confinavano con gli Etruschi e, ricordando che questi ultimi chiamavano il loro popolo RASENA (RAS-NA cioé signori-dell'acqua!, anche se i popoli nemici preferivano tradurre come "pirati"!!!), può essere interessante annotare come alcuni toponimi ci ricordano questa presenza etrusca.
    Vicino a Sarsina in Romagna ma anche nei pressi di Gubbio ci sono due paesi chiamati Rasenna, il cui nome è evidentemente sopravvissuto nei secoli e lungo il fiume Tevere c'è un paese che si chiama Resina e vanta la medesima origine.
    Inoltre la città di Todi che era umbra è situata al confine con gli Etruschi ed il fiume Tevere ne era il confine. Confine chiamato in umbro tuder, ed in etrusco tular."
    Le Tavole Ikuvine sono reperti bronzei ritrovati nel 1444, alcune sono scritte in alfabeto umbro antico che risalgono al periodo 200-120 a.C. ed altre in alfabeto latino adattato che risalgono al 150-70 a. C. In una tavola vediamo descritta in alfabeto umbro la cerimonia espiatoria che era riservata solo agli appartenenti alla Tota.
    Alla riga 16 recita: "akeruniamem, enumek eturstamu tuta tarinate, trifu tarinate, turskum, naharkum numem, iapuzkum numem.....svepis habe, purtatulu pue mers est, feitu uru pere mers est" che si traduce "giunti ed Acedonia, si bandiscano la comunità tadinate, la tribù tadinate, gli etruschi, i naharti (quelli di Terni), gli japurski (verso la zona di Urbino)....se si sorprende qualcuno di quei nomi si portino dove è legge e gli si faccia ciò che è legge".
    Questa tavola ci fa conoscere quali erano i popoli che confinavano con la comunità di Gubbio e cioè tutti coloro che abitavano la zona di Gualdo Tadino, gli Etruschi, i Nahartes di Terni e gli Japurski che abitavano oltre Urbania fino al mare Adriatico."
(Maggiori notizie su questo argomento si possono trovare su questo Blog nell'articolo "Claverni, Casilates, Pieienates")
     Il TEMPLUM era una costruzione dedicata dagli antichi popoli romani-italici-etruschi alle divinità  più importanti, come ad esempio la triade etrusca Tinia, Uni, Menrva, o quella romana Giove, Giunone, Minerva.
    Un tipo di tempio meno importante era il FANUM, per esempio ricordiamo quello che ha dato il nome alla città di Fano e che era dedicato alla dea Fortuna. Questo era una piccola costruzione, con annesso un terreno sacro e la possibilità di accogliere e rifocillare i viandanti.
    Infine il DELUBRUM che era sostanzialmente un santuario con associata una vasta zona ritenuta sacra, non aveva costruzioni imponenti, ma solo piccoli santuari nelle radure del bosco in cui era possibile fare i sacrifici.
    Giunti a Scalocchio, osserviamo la notevole Abbazia situata sulla piccola spianata a prato, con le mura in pietra arenaria, molto opportunamente restaurata, bella, isolata, circondata da un anfiteatro di verde bosco in una zona praticamente con scarsa popolazione fissa.
    Non è che in passato vi fossero tanti abitanti e comodità se molti ricordano che il parroco per vedere le prime trasmissioni televisive aveva costruito un impianto per la produzione della corrente idroelettrica, sfruttando il vicino torrente e quindi accendeva la televisione con l'apertura della saracinesca dell'acqua!
    Grande meraviglia, stupore e soddisfazione quando siamo passati all'interno della chiesa di Scalocchio, che non avevamo mai vista prima e sulla cui toponomastica avevamo avanzato ipotesi in più occasioni pubbliche ed in particolare con la pubblicazione citata più sopra!

Le Ròcche pronte per la processione!
     Dai restauri sono saltati fuori (oltre ad una statua di San Sebastiano del XV sec. ora al Museo del Duomo di Città di Castello) alcuni reperti ritrovati nel materiale di scavo o ancora oggi inglobati nei muri: pezzi di capitello, pezzi di colonna a torciglione dal diametro di circa 20 cm, conci perfettamente squadrati di calcare bianco presenti un poco ovunque.

San Sebastiano - statua proveniente dall'abbazia di S. Benedetto di Scalocchio ora conservata nel Museo del Duomo di Città di Castello (immagine tratta dal sito museoduomocdc.it)
     Localmente non si trova il calcare di colore bianco, ma solo pietra arenaria ed il punto più vicino in cui è possibile estrarlo è il Monte Nerone in cui è noto con il nome di Travertino (c'è un'antica cava nel versante di Piobbico, la cui pietra sembra sia stata usata anche per l'Arco di Augusto di Fano).
    I monaci che hanno costruito l'abbazia di Scalocchio hanno utilizzato le pietre del posto, abbondanti e sommariamente sgrossate, oltre a qualche reperto calcareo che residuava da una piccola precedente costruzione, la maggior parte della quale costituiva una cripta interrata sotto l'Abbazia.
    Sappiamo che l'utilizzo di pietre locali come materiale da costruzione, ancorché poco resistenti ma sicuramente di basso costo, è iniziato con la decadenza dell'Impero Romano e la conseguente scarsa disponibilità economica.
    Preesisteva dunque all'Abbazia una cripta, risalente presumibilmente ai primi secoli del Cristianesimo quando ancora si utilizzava per i manufatti sacri, anche in località di campagna, materiale che assicurasse una lunga durata nel tempo.

Reperti di colonne  e fregi provenienti dal restauro dell'Abbazia
    Probabilmente questa prima costruzione cristiana, una chiesetta in arte tardo antica come sembrano indicarci i resti rinvenuti nella cripta dell'Abbazia, potrebbe avere preso il posto del santuario pagano umbro-etrusco in modo da abituare gradualmente alla nuova fede gli abitanti.
    Di questo santuario pagano non abbiamo risultanze archeologiche, ma questo può spiegarsi con il fatto che gli Etruschi costruivano i loro templi in materiale deperibile, legno o terracotta, mentre per gli Umbri il tempio era semplicemente il luogo sacro.
    Per costoro in alcuni casi era l'Okre, la collina dove si facevano le osservazioni celesti, le processioni sacre, si svolgevano le cerimonie, si consumavano insieme i pasti a base di sacre torte, si sacrificavano e consumavano animali domestici.
    In altri casi era una sorgente o un corso d'acqua, ma si trattava sempre di un luogo fisico e mai era presente una costruzione fissa, come possiamo documentare dalle Tavole Ikuvine.
Ci appare facilmente ipotizzabile l'antico DELUBRUM dedicato a CALE in base alla toponomastica del luogo, così come abbiamo ritrovato nei territori abitati dalla Tota Ikuvina tante colline che richiamano il nome okre!
    Inoltre la continuità delle zone sacre è una costante molto ben documentata ovunque ed anche in questo caso riteniamo debba essere presa in grande considerazione, per la particolare ubicazione fra due corsi d'acqua che è tipica dei luoghi sacri.
    Può essere interessante una considerazione, già svolta nel citato libro, in base alla quale si ritiene  che fino al V sec. il Cristianesimo non abbia raggiunto le aree montane e che la nuova religione si sia affermata lentamente nelle zone lontane dalla Via Flaminia o Tiberina che rappresentavano la grande viabilità.
    Nel frammento VII di Ilario di Poitiers è nominato "Grecianus Episcopus a Calle" che era relatore al Concilio di Rimini nel 359 (e probabilmente non era il primo Vescovo della città!) a dimostrazione che la cristianità si stava espandendo lungo le strade consolari. (vedi "Immagine di Cagli" di C. Arseni, Grafiche Calosci - Cortona 1989)
    Il poeta Claudio Claudiano nel suo "De consulatu Honorii" in occasione del passaggio lungo la Flaminia nelle gole appenniniche, cita testualmente: <Exuperat delubra Jovis saxoque minantes/Appenninigenis cultus pastoribus aras> cioé <supera il delubrum di Giove e le are dei pastori minaccianti dai monti>.
    Questo evidentemente ci dice che in quel periodo ancora sui monti c'erano gli altari dedicati agli dei pagani dei pastori e dobbiamo tenere conto che il poeta è nato nel 370 in Alessandria d'Egitto e morto nel 404 a Roma.
    Il delubrum poteva essere infatti una piccola costruzione in forma di altare, in pratica un santuario, in cui ci si riuniva all'esterno nel prato antistante, come ancora si fa oggi per tradizione durante la festa dell'Abbazia in cui portano in processione le Rocche come augurio di fertilità.
    Tra i reperti, un capitello presenta su ogni lato una sirena bicaudata, che è un antichissimo simbolo presente anche nelle tombe etrusche, ad esempio nella necropoli di Sopraripa a Sovana, nella Tomba delle Sirene risalente al III sec. a. C. in cui nel vano che si apre sulla parete rocciosa compaiono ai lati i demoni custodi degli inferi e sul timpano la sirena bicaudata (Melusina).

Capitello con la Melusina ritrovato durante il restauro dell'Abbazia di Scalocchio
     La sirena rappresentava la fertilità ed era un potente simbolo acquatico; il femminile era considerato sacro poiché la donna garantiva il contatto con la dimensione divina.  In alcune necropoli etrusche veniva rappresentata anche alata in quanto porta di accesso agli inferi e si riteneva che scortasse l'anima verso il mondo degli antenati.
    Avvalendosi delle interpretazioni tratte da "Manuale dei simboli nell'arte-Il medioevo" EDUP Roma 2004 e "Manuale per leggere l'architettura" EDUP  Roma 2001, entrambi di M. Chelli possiamo fare alcune considerazioni.
    La sirena che stringe fra le mani le due estremità della coda, quasi ad allontanarle da sé, significa il dominio delle passioni per una rinascita spirituale. La presenza del sesso nella figura bifida può avere differenti interpretazioni, un valore apotropaico che apparteneva alla simbologia pagana e allontanava il male oppure semplicemente come un simbolo di procreazione.
    Successivamente il Cristianesimo ha adottato questo simbolo, che ritroviamo in tante chiese del II-III sec. come la Pieve di Corsignano (Pienza), Pavia, Bitonto, Como, Acerenza, ma anche localmente come la cattedrale di Pesaro, Santa Croce di Sentinum a Sassoferrato, ed una miriade di altre.
    Per il Cristianesimo assumeva il significato di morte e rinascita ma anche la creatura foriera di rigenerazione spirituale e portatrice di sapienza, superando il concetto pagano di fertilità e delle acque e protezione degli  inferi.
    Nel capitello di Scalocchio la Sirena è completa secondo il canone più antico, infatti vi è rappresentata anche la vulva per rimarcare il concetto di fertilità e nascita.
    Il fregio a intreccio orizzontale scolpito in alcuni reperti rinvenuti sembra che derivi dalla scrittura cufica che nacque in Iraq nella città di Qufi e venne adottato dagli scultori romanici, introdotto in Occidente dai nomadi, perdendo peraltro il valore simbolico originario di quella scrittura. Questo intreccio chiuso significa Sapienza ed Eternità Divina, che non ha principio fine e genera protezione.
    C'è poi un tipo di fregio a spina di pesce che rievoca la figura del Cristo (i primi cristiani venivano chiamati appunto Nazareni ed indicati con il simbolo di un pesce) ed uno ad incavi, oltre ad un rocchio di colonna a scanalature spiraleggianti e molti altri reperti che sono rimasti nelle macerie della cripta non ancora scavata totalmente per mancanza di fondi.
    Proseguendo la giornata passiamo per il "Lago di Scalocchio", in realtà un campo, che nel mezzo ancora presenta alberi e cespugli acquatici e nei periodi invernali ancora evidenzia una polla di acqua. Personalmente ci è stato riferito da persone che hanno visto il lago prima dell'ultima guerra mondiale (1940-45) che il medesimo è poi scomparso per effetto di una o più bombe fattevi cadere da un aereo inglese che ha rotto lo strato impermeabile e quindi provocato il prosciugamento di questo piccolo laghetto la cui profondità era solo di qualche metro.

Il "lago di Scalocchio"
     Arriviamo a "Spogno" dove ci deliziamo con un aperitivo a base di formaggi e "bollicine", poi un bel pranzo con le usuali piacevoli chiacchiere sulla giornata a Cirigiolo ed infine discendiamo verso la vallata di Apecchio, per poi proseguire in salita sul versante opposto fino al Castello di Montalto.

Il Castello di Montalto (Apecchio)
     Qui Lionello Bei ci aspetta con vino fresco e ci fa vedere la sua dimora di campagna ricostruita con grande amore, dove vediamo persino un passaggio segreto nascosto dietro ad un caminetto! Dai merli si gode un panorama eccezionale lungo la vallata che anticamente metteva in comunicazione gli Umbri Tifernates di Città di Castello con i Casilates di Apecchio e poi proseguiva verso i Klaverni di Chiaserna di Cantiano.

Montalto, vista panoramica
     In questa vallata passava l'antica Via Umbra che successivamente costituirà anche uno dei passaggi del Corridoio Bizantino e anche della Via dei Templari, che ogni 30 Km circa ponevano una loro casa a partire dalla Comanderia più importante che era Fra Bevignate di Perugia. Le tappe successive proseguivano verso San Giustino d'Arno di Valfabbrica, San Giacomo di Regnaldello a Città di Castello, San Maurizio in Vallis a Castelfranco e poi verso San Vincenzo al Furlo, il Balì a Saltara e San Marco a Fano.

Vista panoramica da Montalto della vallata di transito dell'antica Via Umbra


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