di G. Presciutti, M.Presciutti, G.Dromedari
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Pieter Bruegel - Cacciatori nella neve 1565 |
Sempre
più frequentemente si parla dei mutamenti climatici in corso e degli effetti
che questi stanno avendo, e soprattutto che avranno, sulla vita di tutti noi e
dei nostri discendenti. In realtà, tutte le fasi storiche sono state
fortemente condizionate dai cambiamenti del clima, come possiamo vedere, in
estrema sintesi, nella tabella tratta dal libro di Paolo Corazzon “I più grandi eventi meteorologici della
storia”[1] e, forse, questa “prospettiva”
dalla quale guardare gli avvenimenti storici andrebbe meglio studiata e approfondita.
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Schema tratto dal libro di Paolo Corazzon "I più grandi eventi meteorologici della storia" - Alpha Test 2006 |
I
bisnonni dei nostri nonni hanno, purtroppo, avuto la sfortuna di toccare con
mano i pesanti effetti di un cambiamento climatico importante, seppure
temporaneo. Nel gennaio del 1817 il
Gonfaloniere del Comune di Cagli apre la seduta con queste parole: “Gli abitanti delle Ville di Cerreto, Pieia,
Massa, Pianello e Moria sono ridotti ad una estrema mendicità e diremo quasi
all’impotenza di poter vivere. La lunga carestia e gli infortuni li ridussero
privi di ogni risorsa e specialmente delle ghiande, unico prodotto di quei
luoghi per cibarsene e per l’industria dei bestiami. Ciascuno dei congregati è
bene a giorno della straordinaria fame che affligge la classe indigente di
città e molto più delle nostre campagne. Questa indigenza si è accresciuta a
mano a mano che in città si sono ristretti i lavori di lanificio ed in campagna
a mano che la stagione invernale ha privato i di lei abitanti anche del
soccorso delle poche erbe silvestri e dell’insalubrissimo cibo dei tutoli di
formentone, che era l’unica risorsa per i primi mesi d’inverno” (Libri Consiliari)[2].
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Scorcio invernale di Pieia negli anni 70 - Foto di Leo Marconi tratta dal libro fotografico "Ricordi dietro l'angolo" - 2005 |
Dunque
i nostri avi per fronteggiare quel tremendo periodo di carestia, non potendo
cibarsi di ghiande, anch’esse finite, dovettero ricorrere ai “tutoli del formentone”, ovvero a ciò che
restava delle spighe del granoturco dopo averle private dei chicchi di mais. I
“tutoli” venivano fatti bollire a lungo in acqua per
cercare di renderli in qualche modo più digeribili, ma, come è facile
immaginare, con pessimi risultati, tanto che il Gonfaloniere, con tono preoccupato,
lo definisce “insalubrissimo cibo”.
Ma da cosa era stata originata quella terribile carestia ?
Il
1816 viene ricordato come “l’anno senza
estate”[3], infatti il 6 giugno, dopo
una primavera trascorsa tutto sommato nella normalità, un’ondata di aria fredda
investì il Nord Europa che fu ricoperto da un’intensa nevicata e in tutto il
continente un freddo invernale la fece da padrone[4] per almeno una settimana. A
metà luglio, quando si era ormai in piena estate, vi fu una nuova ondata di
freddo artico che mise in ginocchio le produzioni agricole, già seriamente
danneggiate dalla prima ondata di freddo. I prezzi di mais e frumento
schizzarono alle stelle e per le classi più “deboli” iniziarono i problemi.
Fino alla metà di agosto non si registrarono altre stranezze, ma poi alla fine
di agosto una nuova ondata di freddo si spinse fino al Mediterraneo, provocando
la perdita della maggior parte dei raccolti di granoturco, patate, fagioli e
uva, nonché dei prodotti che andavano a comporre le biade per gli animali, i
quali iniziarono a deperire e ad ammalarsi. Nelle campagne ci si apprestò ad
affrontare un autunno e un inverno particolarmente freddi con i magazzini già
vuoti e con i prezzi che erano saliti vertiginosamente, il tutto in un contesto
generale già minato dalle recenti guerre napoleoniche, che avevano provocato
grandi disagi alle popolazioni.
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Tutoli di mais, risorsa estrema di cibo nel 1816/17 |
Le
cronache delle città raccontano di violenze e rapine, esasperate dalla mancanza
di cibo, con i ceti più indigenti costretti a cibarsi di quello che trovavano,
gatti, topi, erbe, piante e radici di ogni tipo, che a volte risultavano essere
velenose con conseguente morte di coloro che le avevano mangiate, tanto da
costringere le autorità a organizzare lezioni per limitare questi inconvenienti[5].
Nelle
nostre campagne forse non si verificarono le violenze che caratterizzarono la
vita di alcune città, certamente però, come testimoniano i “Libri Consiliari”
di Cagli, la situazione fu altrettanto grave, tanto che “nei primi mesi del 1817 si propagarono febbri contagiose determinate da
tifo pestilenziale e nervoso”[6]. Mancando
un ospedale apposito, scrive sempre Arseni, gli ammalati furono ricoverati nei
magazzini dell’Ospedale degli esposti e fu impedita l’entrata in città agli
accattoni, specialmente se provenienti da Gubbio, Città di Castello e Apecchio,
le zone più contagiate. I morti furono seppelliti nel piccolo cimitero di S.
Emidio e si aprì un ospedale nel Monastero di S. Chiara. Al Comando militare
furono assegnate funzioni di guardia civica. Insomma una situazione di
emergenza totale che lentamente migliorò con il graduale ritorno alla normalità climatica, a partire dalla primavera del 1817.
L'analisi del registro dei morti delle parrocchie di Massa, Pievarella e Cerreto, ossia delle tre parrocchie all'epoca esistenti nella vallata di Pianello di Cagli (Pu) nelle quali si tumulavano i defunti, ci aiuta a capire meglio gli effetti concreti della crisi climatica del 1816 e della conseguente carestia. Nel grafico sopra riportato, gli istogrammi azzurri rappresentano il numero dei morti per anno, mentre la linea rossa indica la media mobile, calcolata su tre anni, del numero di morti. Entrambi gli indicatori dimostrano in modo più che evidente il picco di morti che si registrò già nel 1816, ma che esplose poi nel 1817, quando gli effetti di un inverno trascorso senza cibo e in condizioni di precarietà fisica spianarono la strada a malattie di ogni tipo. I decessi, che fino al 1815 raramente superavano le dieci unità per anno, nel 1816 salirono a 19 e poi nel 1817 arrivarono a 36, quasi il quadruplo di un anno "normale".
In pratica se in tempi normali si celebrava meno di un funerale al mese, nel 1817 in media se ne verificarono uno ogni dieci giorni.
L'analisi del registro dei morti delle parrocchie di Massa, Pievarella e Cerreto, ossia delle tre parrocchie all'epoca esistenti nella vallata di Pianello di Cagli (Pu) nelle quali si tumulavano i defunti, ci aiuta a capire meglio gli effetti concreti della crisi climatica del 1816 e della conseguente carestia. Nel grafico sopra riportato, gli istogrammi azzurri rappresentano il numero dei morti per anno, mentre la linea rossa indica la media mobile, calcolata su tre anni, del numero di morti. Entrambi gli indicatori dimostrano in modo più che evidente il picco di morti che si registrò già nel 1816, ma che esplose poi nel 1817, quando gli effetti di un inverno trascorso senza cibo e in condizioni di precarietà fisica spianarono la strada a malattie di ogni tipo. I decessi, che fino al 1815 raramente superavano le dieci unità per anno, nel 1816 salirono a 19 e poi nel 1817 arrivarono a 36, quasi il quadruplo di un anno "normale".
In pratica se in tempi normali si celebrava meno di un funerale al mese, nel 1817 in media se ne verificarono uno ogni dieci giorni.
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Grafico n.2 - Andamento dei decessi per mese nella vallata di Pianello negli anni 1816 e 1817 |
Approfondendo
l'analisi sui decessi avvenuti nei due anni della crisi, il 1816 e il 1817,
scopriamo che il grosso delle morti si concentrò sostanzialmente in due
periodi. Vi fu infatti un primo picco dal luglio 1816 fino all'ottobre 1816,
poi, dal novembre 1816 fino al mese di marzo 1817 vi fu un periodo che potremmo
definire quasi “normale”, infine, dal mese di aprile fino al mese di ottobre
del 1817 si registrò la fase più acuta, con una media di un decesso ogni 5
giorni, finché, a partire dal mese di novembre, tutto rientrò nei canoni della
normalità (vedi grafico n.2). Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare,
i mesi più “tranquilli”, in entrambi gli anni, furono quelli più freddi, come
se il caldo abbia contribuito al diffondersi delle malattie, accentuando così
la mortalità. A questo proposito diventa preziosa la segnalazione del Prof.
Stefano Lancioni, il quale ha condotto un'approfondita ricerca su un'epidemia
di tifo petecchiale diffusasi, nello stesso periodo, nel territorio di
Apecchio, che le autorità sanitarie del luogo faticarono non poco a tenere
sotto controllo[7]. I documenti da noi
esaminati non ci danno certezze al riguardo, ma l'analisi dell'andamento delle
morti sembra perfettamente compatibile con l'insorgere di due focolai epidemici
che colpirono duramente una popolazione già fiaccata dalla malnutrizione
conseguente alla carestia.
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Grafico n 3 - Suddivisione dei decessi per sesso e fasce d'età nella vallata di Pianello di Cagli |
Abbiamo
infine condotto un'analisi sui decessi suddividendo gli stessi fra uomini e
donne e per fasce d'età. Anche tale analisi ha fornito risultati abbastanza
sorprendenti (vedi grafico n.3), infatti il primo dato che balza all'occhio è
che il sesso femminile fu molto più colpito rispetto a quello maschile, 33
donne morte contro 22 uomini, e questa tendenza è particolarmente evidente
nelle fasce d'età 21-30 e 41-60. L'alta mortalità femminile è forse imputabile
a una maggiore precarietà fisica conseguente alle numerose gravidanze
sostenute? Un altro dato piuttosto sorprendente è che la mortalità nella fascia
0-10, che comprende anche la mortalità neonatale, fu quasi nulla (un solo
decesso ). La fascia d'età più colpita fu, nel complesso, quella che va dai 61
ai 70 anni d'età, l'unica nella quale prevalgono in modo significativo i
decessi di uomini, che crescono in correlazione positiva con l'invecchiamento,
correlazione che invece, come abbiamo visto, non si riscontra per le
donne.
E' difficile fare un conteggio della popolazione che all'epoca abitava la vallata, ma, utilizzando i dati degli "stati delle anime" del 1847 per le zone di Pianello, Massa, Pieia e Monte Miliario, integrate con un'annotazione del 1790 sui registri della parrocchia di Pievarella, si può giungere ad una stima di circa 700/800 individui, riuniti in circa 130/140 nuclei familiari. Ne consegue che si può ragionevolmente affermare che nei due anni della carestia, oltre una famiglia su tre fu interessata da un lutto (40 % circa) e che venne meno in due anni, al lordo delle nuove nascite, il 6/7 % della popolazione complessiva della vallata.
Sono numeri che ci aiutano a capire gli effetti concreti dell'anomalia climatica oggi ricordata come "l'anno senza estate" e che meritano senz'altro ulteriori approfondimenti.
Solo
agli inizi del 1900 si iniziò a capire la causa di quelle ondate di freddo
anomalo che gettarono nella prostrazione i nostri progenitori. La causa fu
individuata nell’esplosione avvenuta nell’aprile del 1815 del vulcano Tambora,
in Indonesia, in un’isola a est di Giava. Quella del Tambora fu, forse, una delle
eruzioni più violente della storia moderna, tale da provocare l’immissione nell’atmosfera
terrestre di ben 1.500 metri di cono vulcanico, sui 4.000 complessivi di
altezza del vulcano. Circa 10.000 persone persero la vita per le conseguenze
immediate dell’eruzione e altre 12.000 a causa dei maremoti che colpirono le
coste, mentre il cielo fu completamente oscurato[8]. A
distanza di quattro anni dall’eruzione, le navi incontravano ancora la cenere
in mare, sotto forma di isolotti di pomice galleggianti. Complessivamente
vennero proiettati in aria circa 150 miliardi di metri cubi di roccia, cenere e
altri materiali[9].
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Veduta del Monte Tambora (*) |
In
Europa l’evento passò quasi completamente sotto silenzio, in realtà le polveri
sottili immesse nell’atmosfera dall’eruzione del Tambora andarono a costituire
un filtro che impedì alla radiazione solare di giungere in modo normale a terra,
determinando così un calo sensibile delle temperature medie registrate nei mesi
successivi, con tutto ciò che ne seguì.
La
cosiddetta “piccola glaciazione” iniziata nel 1.400 circa, caratterizzata da
temperature medie inferiori di 2,5/3 gradi rispetto ad oggi, ebbe termine
soltanto a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, quando iniziò una fase
di progressivo riscaldamento dell’atmosfera, tuttora in corso.
Immaginate
i nostri avi intenti a masticare un “tutolo” di mais, mentre imprecano contro
la mala sorte: cosa avrebbero pensato se avessero saputo che le loro disgrazie
erano state causate dall’eruzione di un vulcano a migliaia e migliaia di
chilometri di distanza?
Concludiamo
queste brevi note invitando tutti coloro che fossero in possesso di notizie e/o
documenti relativi a fatti collegati, direttamente e/o indirettamente, alla
carestia del 1816/17 a comunicarli alla redazione del blog, in modo da
integrare e ampliare la ricerca.
© 2015 by Gabriele Presciutti, Maurizio Presciutti, Giuseppe Dromedari - Tutti i diritti riservati
(*)"Mount Tambora Volcano, Sumbawa Island,
Indonesia" di This image was taken by the NASA Expedition 20 crew -Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons - http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mount_Tambora_Volcano,_Sumbawa_Island,_Indonesia.jpg#/media/File:Mount_Tambora_Volcano,_Sumbawa_Island,_Indonesia.jpg
[1] Paolo Corazzon, I più grandi eventi meteorologici della
storia, Edizioni Alpha Test 2006
[2] Carlo Arseni, Immagine di Cagli, Calosci Cortona 1989,
pag,237
[3] Luigi Bignami, L’altalena del clima, in Focus Storia
n.49/2010, pag.45
[4] Paolo Corazzon, op. cit., pag.39
[5] Paolo Corazzon, op.cit., pag.39
[6] Carlo Arseni, op.cit., pag.238
[7] Stefano Lancioni, L'epidemia di tifo petecchiale che colpì Apecchio negli anni 1817/1818 e 1821, in Sguardi n.7, pag.53-62
[7] Stefano Lancioni, L'epidemia di tifo petecchiale che colpì Apecchio negli anni 1817/1818 e 1821, in Sguardi n.7, pag.53-62
[8] Paolo Corazzon, op. cit., pag.40
[9] Fonte: Wikipedia tramite
sito del Global Volcanism Program
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