Un fatto di sangue del 1° giugno 1631. L'omicidio di Girolamo presso il mulino della Fornace.

di G. Presciutti, M. Presciutti e G. Dromedari



La scena del delitto, sul greto del fiume Bosso, magistralmente illustrata da Federico Luchetti




   Il 1° giugno dell’anno 1631, avvenne a Pianello, nella località chiamata “la Fornace” (in loco dicto La Fornace, in lectum flumini Bossi) un grave fatto di sangue. Un tale Girolamo di Alessandro, riconosciuto poi da alcuni vicini di casa come lavoratore di Tolomeo di Nalfio nel podere di Tralimito posto nella villa di Massa, fu rinvenuto morto nel letto del fiume Bosso, colpito al petto da un’archibugiata. L’assassino, si dice, sia stato un certo Jacomino da Pechio (Apecchio).


Il luogo dove avvenne il delitto, sulla riva del fiume Bosso, di fronte all'ansa dove si trovano il mulino e la fornace.
   Nel Ducato di Urbino era stati mesi di tensione, infatti l’ultimo Duca Francesco Maria II Della Rovere era morto, all’età di 83 anni, il 28 aprile 1631, senza lasciare eredi maschi e conseguentemente il Ducato era tornato sotto l’ala diretta del Pontefice, pur mantenendo l’autonomia all’interno dello Stato della Chiesa con lo status di “Legazione”. In realtà la questione era già stata affrontata e formalmente chiusa fra l’anziano Duca e il Papa Urbano VIII, dopo trattative lunghe e difficili, sin dal 30 aprile 1624, però il momento della morte di Francesco Maria II e della devoluzione del Ducato era circondato da timori sulla possibilità che qualcosa andasse storto. In realtà tutto si svolse come previsto e l’occupazione pontificia dei territori rovereschi, dei quali anche la Villa di Massa faceva parte, avvenne in modo pacifico e ordinato. 

   Fatti come quello sopra riportato, seppure molto gravi, non erano certo rari all’epoca, ma il motivo per cui vogliamo parlarne è legato ad alcuni particolari contenuti nei pochi atti sulla vicenda a noi pervenuti e conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Cagli (Querele). 

   Questo articolo vuole essere anche un omaggio all’instancabile lavoro di ricercatore del compianto Marcello Mensà, che ci ha lasciato di recente, il quale aveva messo mano alla trascrizione di questi documenti, fermandosi poi davanti alla parte scritta in latino. Abbiamo chiesto al prof. Stefano Lancioni di Fano, autore di preziosi lavori basati su documenti d’archivio, nonché collaboratore del blog Ver Sacrum, di completare e integrare il lavoro a suo tempo iniziato da Marcello Mensà. 

   Pur con molte difficoltà per la pessima grafia utilizzata dagli estensori dei documenti, aggravata dalla altrettanto pessima qualità del file di immagine a disposizione, il prof. Lancioni è riuscito a trascrivere buona parte del testo e le informazioni che possiamo trarne sono molte. 

La prima parte del documento conservato presso l'Archivio Storico del Comune di Cagli. Qui troviamo la denuncia del Sindicus della Villa di Massa.
   Cominciamo dal luogo nel quale il fatto avvenne, La Fornace, in lectum flumini Bossi, ovvero sulla sponda del fiume Bosso. Gli abitanti di Pianello di Cagli conoscono benissimo l’ubicazione di questo toponimo in quanto ancora oggi utilizzato nel parlare comune. Magari molti, e in particolare i più giovani, non conoscono il perché si utilizzi quel toponimo, anche se è facile immaginarlo, ma, soprattutto, non conoscono ciò che avveniva in quel luogo situato per l’appunto, in un’ansa del fiume Bosso. 


Immagini dei ruderi della Fornace scattate circa 40 anni fa da Manlio Magnoni. In primo piano ciò che resta della torre della fornace. Da apprezzare la maestria degli scalpellini che hanno conciato le pietre e dei muratori che hanno realizzato angoli assolutamente perfetti.
    I ruderi di quella fornace che ha originato il toponimo esistono ancora ed esaminando le mappe del catasto pontificio (anno 1815 circa) si ha bene l’immagine di come il luogo fosse organizzato. Sì, parliamo di organizzazione, perché a pochissima distanza dalla fornace esisteva anche un mulino e, come vedremo la presenza del mulino era del tutto funzionale alla fornace. A lato della fornace scorreva il canale di gora del mulino che portava le sue acque al vascone centrale (bottaccio) realizzato al centro dell’ansa del fiume, del quale ci si serviva secondo il bisogno per azionare i palmenti del mulino. L’acqua, una volta utilizzata, riprendeva poi il canale (vallato) che l’avrebbe riportata al fiume Bosso (… per l’appunto “acqua passata non macina più”).

Estratto della mappa del Catasto Pontificio (1815 circa) dalla quale si ricava un'immagine molto chiara di come erano disposte le due costruzioni all'interno dell'ansa del fiume. A sinistra la Fornace e a destra il mulino, con il canale che riportava l'acqua al fiume.
   La presenza in uno stesso luogo di una fornace e di un mulino non è casuale, infatti nel mulino si trovavano due macine, una delle quali era impiegata per macinare i cereali, mentre l’altra si usava per frantumare i ciottoli di calcare, raccolti nel fiume o estratti da cave vicine e poi utilizzati per ottenere la calce. Il processo di cottura del calcare nella fornace, a circa 800/900 gradi, provoca una processo chimico che trasforma il calcare in calce viva, che, attraverso un processo di “spegnimento” in acqua, diventa un eccellente materiale da costruzione conosciuto e utilizzato fin dall’antichità. La particolarità del luogo, però, non finisce qui, infatti nella parete addossata al Monte Frontino, ovvero nel lato che chiude il triangolo formato dall’ansa del fiume Bosso, esiste un deposito di argilla, che costituiva la materia prima per la realizzazione di mattoni e tegole, cotti poi nella fornace. 

Un altro estratto della mappa pontificia nella quale però non viene evidenziata la fornace.
   In definitiva questo luogo oggi abbandonato e colonizzato dai rovi e che non significa più nulla, nei secoli passati era un piccolo “polo artigianale” che funzionava a pieno ritmo macinando cereali e producendo calce, mattoni per pavimenti e tegole. Molto probabilmente non venivano prodotti mattoni da costruzione, o in quantità minima, perché per la costruzione delle case, in zona, normalmente non venivano utilizzati poiché si impiegava la pietra rosa del Nerone oppure l’arenaria. 

   L’attività di produzione di mattoni per pavimenti e tegole è proseguita anche nell’ottocento e nei primi decenni del novecento, ma a quel punto, non sappiamo per quale motivo, era stata costruita una nuova fornace, dall’altra parte del fiume, esistente ancora oggi, inglobata nel piano terra di una casa colonica ristrutturata. Evidentemente la disponibilità di argilla nei paraggi aveva indotto a non allontanarsi molto dal luogo originario, scegliendo però l’altro lato del fiume, più comodo per raggiungere la strada principale per Cagli che nel frattempo era stata realizzata da quel lato. 

   Torniamo ora al nostro povero Girollamo. La notizia della sua uccisione viene data alle autorità da un certo Thomas Nicolai il quale si qualifica come Sindicus Massae, cioè Sindaco di Massa. Ovviamente non dobbiamo intendere la definizione di sindaco nella sua accezione moderna, ma, molto probabilmente, erano queste delle persone preposte a far da riferimento e da tramite delle autorità comunali e/o ecclesiastiche nelle comunità minori quali le “ville”. Più note e attestate sono le figure dei “massari”, responsabili in loco dell’ordine pubblico che dovevano comunicare ai magistrati qualsiasi problema, e dei “viali”, responsabili delle strade nelle zone di loro competenza, una sorta di cantonieri ante litteram. 

   In realtà, però, un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Pesaro datato 24 settembre 1696 (Lettere dalle Comunità), attesta che nelle ville più grandi era prevista sia la figura del Sindicus che quella del Massaro, mentre in quelle più piccole era prevista soltanto la figura del Sindicus o, per meglio dire, era previsto l’Officio della Sindicaria. Nel documento citato, infatti, le autorità di Cagli avevano redatto un elenco di tutte le persone adatte ad assumere incarichi pubblici nella Città, nonché nei Castelli e nelle Ville sottoposte alla giurisdizione della Città, comunicandolo alla Legazione di Urbino. Era ad elenchi come questo che poi si faceva riferimento quando si presentava la necessità di scegliere una persona per una magistratura o un ufficio pubblico. 

  Il Sindicus e il Massaro prestavano la propria opera nelle comunità minori senza ricevere alcun emolumento, però, in tutta evidenza, erano gratificate dall’assunzione di un ruolo di primo piano all’interno della comunità e si interfacciavano in modo privilegiato con le autorità. Molto probabilmente il ruolo del Sindicus è del tutto simile a quello del massaro, infatti, nel nostro caso, Thomas Nicolai effettua un primo sopralluogo sul luogo del delitto e raccoglie le primissime notizie sulla vicenda (…si dice da Jacomino da Pechio; …ho anco inteso essersi trovato presente Don Giuseppe Capellano della Pieve; etc.), poi le comunica alle autorità, le quali intervengono ufficialmente (effettua il sopralluogo il Notaio Felice Garulli al posto del Cancelliere che in quel momento evidentemente era assente) redigendo, in latino, la ricognizione del cadavere ed effettuando il riconoscimento della vittima ascoltando e verbalizzando la deposizione di alcuni testimoni.

Un bel disegno (anonimo) realizzato nel 1976 del Mulino della Fornace, chiamato a Pianello Mulin d'sotto (in contrapposizione all'altro mulino che era ubicato al centro del paese nel punto dove ora sorge il forno).
  Non disponendo al tempo di macchine fotografiche, la ricognizione del cadavere effettuata dal pubblico ufficiale aveva anche il compito di “fissare” sulla carta i dettagli della scena, che venivano descritti con una certa precisione, in quanto poi utilizzati o utilizzabili in sede processuale. Dalla descrizione del Notaio Felice Garulli apprendiamo diversi particolari: 
- la vittima è stata ritrovata con la faccia verso terra e il dorso verso il cielo; 
- indossava un abito di lino bianco e un mantello azzurro ed era senza cappello; 
- era armato con un archibugio, carico, a ruota (un terzanello o terzarolo) ed aveva con sé anche la fiasca con la polvere da sparo; 
- aveva la barba nera e dimostrava circa 35 anni; 
- era stato ferito alla mano sinistra e al petto.
  I particolari sopra descritti, in effetti, ricostruiscono in modo diremmo oggi “fotografico” la scena del delitto e mettono in evidenza alcuni dettagli molto interessanti che analizzeremo.

Nella foto un terzanello o terzarolo.
   In primo luogo colpisce il fatto che la vittima sia armata. L’arma è un archibugio a ruota (archibugium in terza a rota), un terzanello per la precisione, ovvero un archibugio la cui lunghezza era di un terzo rispetto all’archibugio classico e quindi era una specie di pistola. L’arma si caricava con una pallottola di piombo dal davanti, mentre il meccanismo a ruota consisteva in un sistema caricato a molla che, al rilascio del grilletto, andava a sfregare un pezzo di pirite provocando delle scintille che incendiavano la polvere presente nello scodellino, innescando così lo sparo della pallottola. Tutti gli statuti comunali proibivano in modo tassativo di girare armati, sia di armi da taglio che di armi da fuoco, a meno che non si facesse parte delle guardie cittadine o di corpi similari, pertanto il fatto che il nostro Girollamo fosse armato non è per niente usuale. Non solo, il terzanello che portava con sé era carico e pronto a sparare! Ne deduciamo che la vittima non avesse buone intenzioni quando si recò presso la fornace, ma, in tutta evidenza, Jacomino di Pechio fu più furbo o più rapido nell’affrontarlo, infatti Girollamo fu colpito non solo dall’archibugiata letale al petto, ma anche alla mano sinistra. Considerando che i tempi di ricarica di un archibugio erano lunghi e che per essere precisi (non avevano la canna rigata) dovevano essere usati piuttosto da vicino, possiamo immaginare che la ferita alla mano sinistra fu inferta con un’arma da taglio, poi venne esploso il colpo letale di archibugio (fuit vulneratu cum d’una archibugiata), mentre forse Girollamo stava cercando di reagire all’attacco di Jacomino

  Il Notaio ci descrive anche l’abbigliamento di Girollamo: indossava un abito di lino bianco e un mantello azzurro. Non sappiamo se questi abiti, piuttosto particolari, avessero uno specifico significato, ma di certo non passava inosservato e d’altra parte non sembrerebbe un vestiario usuale per un semplice bracciante. Forse era l’abito della festa, visto che il 1 giugno 1631 cadeva di domenica! Evidenziamo infine un ultimo particolare: il Syndicus riferisce di avere inteso che al fatto si è trovato presente anche don Giuseppe, Capellano della Pieve, a sua volta rimasto ferito ad una mano. Riteniamo che la Pieve alla quale ci si riferisce sia la “Pievarella”, ovvero la Pieve dei Santi Quirico e Giulitta, parrocchia un tempo dipendente dall’abbazia di Massa, che si trova nelle immediate vicinanze del podere di Tralimite, dove, per l’appunto, la vittima prestava la sua opera di lavoratore.

Il podere di Tralimite (Tralimbito nella mappa pontificia), dove Girolamo prestava la sua opera di bracciante.
  Presumiamo che quel giorno Girollamo e don Giuseppe abbiano intrapreso insieme il tragitto, non lungo per la verità (circa 3 km), che separa la Pievarella dalla Fornace e, forse, la questione che dovevano affrontare e risolvere coinvolgeva in qualche modo anche il cappellano. Quando poi fra Girollamo e Jacomino de Pechio si è passati dalle parole alle mani e poi alle armi, il cappellano avrà in qualche modo cercato di separare i due litiganti, rimanendone ferito alla mano, poi è arrivata l’archibugiata letale che ha messo fine ad ogni discussione, forse. 

  Per il momento non disponiamo di ulteriori elementi, ma riteniamo comunque che la lettura attenta di questi atti ci abbia dato la possibilità, attraverso un fatto di sangue, di cogliere aspetti non secondari di quella che era la vita quotidiana nel XVII secolo nelle nostre vallate appenniniche, con uno sguardo “dal basso”, quello che spesso è difficile trovare nei libri di storia.


© by Gabriele Presciutti, Maurizio Presciutti e Giuseppe Dromedari

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