L'eremo di San Nicolò di Bosso

di G. Presciutti, M. Presciutti e G. Dromedari



Il Pajaro del Diavlo, ovvero il Pagliaio del Diavolo, troneggia come un gigante su tutta la vallata dell'Eremita.
Secondo quanto narra la tradizione, la fondazione dell’eremo di S. Nicolò di Bosso, è attribuita a S. Romualdo. 
Il santo, nello stesso periodo, avrebbe dato vita anche agli eremi di S. Salvatore delle Foci di Cagli e di S. Bartolo, sulle pendici orientali del Monte Petrano[1].
Non si conoscono, ad oggi, documenti d’archivio che consentano di attribuire con certezza l’istituzione dei tre eremi a S. Romualdo, però la cosa non appare certo improbabile, se pensiamo che il santo dimorò nel territorio cagliese intorno all’anno 1012. Questi proveniva dal monastero di S. Vincenzo di Petra Pertusa (Furlo), dove, secondo gli storici[2], dimorò quando già aveva tra i 104 e 105 anni d’età.
Lo precedeva, come ovunque, la fama delle sue virtù, con la conseguenza di un continuo accorrere delle folle intorno al lui, il che lo costringeva, nella sua ricerca della vita solitaria, a cambiare frequentemente di zona ed a ricercare i luoghi più impervi ed isolati[3].
In questa sua ricerca esplorò, di fatto, tutta la vallata del fiume Burano e quella del Bosso, scegliendone poi tre località per lasciarvi la sua impronta.
La conferma dell’attività svolta da San Romualdo alle pendici del Monte Petrano, la troviamo nella “Vita di San Romualdo” scritta da S. Pier Damiani, il quale fu quasi contemporaneo di S. Romualdo.

Breve storia dell’eremo
La storia dell’eremo di S. Nicolò non fu certo brillante ed importante quanto quella dell’abbazia di Massa. Lo stile di vita dei monaci eremiti era molto meno attento ai beni materiali ed al potere secolare, inoltre l’eremo, per sua natura, non era il perno centrale attorno a cui ruotava la vita di una comunità, come invece avveniva per l’abbazia di S. Pietro di Massa.  Nonostante ciò, ancora oggi, a circa un millennio di distanza, i nomi dei luoghi recano ben impressa l’impronta della presenza degli eremiti nella vallata ed è per questo che si ritiene giusto dedicare all’eremo uno spazio a sé nel racconto. 

Panorama della Valle dell'Eremita dal Pajaro del Diavlo, dove sono dislocate decine di celle eremitiche.
L’eremo sorgeva nel lato destro del fiume Bosso in direzione Pianello-Secchiano, in una posizione situata tra l’attuale vallata della Romita e l’acqua di S. Nicolò.  Come si vede, i nomi ancora oggi usati, sono strettamente legati alle vicende di questo romitorio. Le celle utilizzate dagli eremiti erano sparse per tutta la vallata della Romita e nell’attuale Val della Barca. Sulle celle troneggiava lo sperone del “Pagliaio del Diavolo” che, come riferiva il Buroni[4], era motivo di gustose leggende, ormai malauguratamente sconosciute.

Ruderi della cinta perimetrale dell'eremo, ormai fagocitati dalla vegetazione-
Il documento più antico a noi giunto, nel quale si parla dell’eremo, è una dichiarazione fatta nel 1085 dal conte Ugone di Riccardo e da Gemma, sua moglie, ad Aliprando, priore del monastero di Fonte Avellana, nella quale promettevano di non arrecare danni ai beni dei monasteri di S. Angelo di Sortecchio, S. Bartolo della Rocca di M. Petrano e di S. Nicolò.  Se ne deduce quindi che all’epoca l’eremo di S. Nicolò era dipendente dal monastero di Fonte Avellana.
Nell’anno 1093 l’eremo ricevette da Ugone Siccardi, vescovo di Cagli e già abate del monastero di S. Geronzo e dal conte Falconino, suo fratello, una larga donazione di quanto possedevano alle pendici di monte Petrano, Teria e monte Calvo, ed anche la chiesa di S. Leo con tutte le terre a questa spettanti[5]
Un'altra immagine dei ruderi dell'eremo di San Nicolò di Bosso.
Circa quaranta anni dopo, nel 1132, l’eremo di S. Nicolò, così arricchito, per effetto di una permuta tra il Priore di Fonte Avellana D. Benedetto e l’abate Bernardo di S.Geronzo, passa alle dipendenze del monastero di S. Geronzo. Riferisce il Gucci nelle sue memorie[6]: “ D. Benedetto Priore di S.Croce dell’Avellana, col consenso de’ suoi monaci, concesse a P. Bernardo Abbate di S.Ghironzo et ai successori suoi la Chiesa di San Nicolò di Bosso , con l’altre chiamate di S. Vitale, di S. Sebastiano, di S. Leo e di S. Pietro, con tutti i libri, calici, apparati, et ornamenti dell’istessa Chiesa di S. Nicolò, e con la terra, e vigna, che à quella s’appartenevono, come anco con tutte le sue decime, primitie, rendite de vivi, e de morti, acque, acquaioli, scolini, e ciò che altro di mobile et immobile alla medesima si aspettava”.  Le chiese sopra ricordate, sparse lungo la vallata del fiume Bosso, forse, formavano insieme il patrimonio dell’eremo di S. Nicolò. Delle chiese citate S. Sebastiano non esiste più ed al momento se ne ignora l’ubicazione, S. Leo non esiste più, ma è noto il luogo dove sorgeva, una propaggine del Monte Petrano lungo la vallata del Bosso, che ancora oggi ne porta il nome (Monte S. Leo), mentre le chiese di S. Vitale e di S. Pietro del Cuppio esistono ancora oggi, sebbene di quest’ultima, ubicata nei pressi di Fosto, restino soltanto dei ruderi.
Nel 1180 si rileva una nuova donazione della nobile famiglia Siccardi di Cagli, che evidentemente nutriva una particolare venerazione per quest’eremo, insieme con la famiglia Acquaviva. La famiglia Siccardi, così come anche la famiglia Acquaviva,  possedeva molti beni nella valle del Bosso, dove aveva anche un castello, detto appunto Castiglione dei Siccardi, nell'odierna parrocchia di S. Vitale[7]. Questi i beni che furono oggetto della donazione: “ damus et donamus terras et silvas frondosa, positas in comitatu Calliense, in loco qui dicitur Cereto di Monte Petrano – e poi continua- scilicet terras, silvas, pascua, prata, saxa et Rupina, cum introituet exito suo, et cum omnibus suis pertinentiis ad habendum, et ad faciendum ibi unam ecclesiam[8] 

I ruderi di una delle celle eremitiche meglio conservate.
Intanto nel 1290 il monastero di S. Geronzo, ridotto a tre soli monaci, fu unito dal papa Nicolò IV per due terzi di beni alla mensa vescovile e per un terzo a quella dei Canonici. L’eremo di S. Nicolò seguì anch’esso la sorte del monastero da cui dipendeva e, secondo il Palazzini, all’epoca del passaggio alla mensa vescovile, l’eremo non era più abitato, ma non ne abbiamo certezza.   
Alla fine del secolo XIV, dall’esame dei documenti relativi al pagamento delle decime, appare ormai chiaro che la chiesa, e quindi l’eremo, non hanno più alcuna autonomia, ma rappresentano unicamente una modesta fonte di rendite suddivise fra il Vescovo ed il Capitolo della Cattedrale di Cagli.
Da un documento del 1511 si deduce che la chiesa di S. Nicolò, pur esistendo ancora come entità religiosa, era già in rovina ed abbandonata, tanto che i riti erano officiati nella chiesa di S. Cristoforo di Colle Nudo (Via Stratta). La chiesa di S. Nicolò, molto probabilmente, non fu mai riparata e finì per crollare del tutto. Fu così riunita alla parrocchiale di S. Cristoforo di Colle Nudo nel 1580 , che prese allora il titolo dei SS. Cristoforo e Nicola ed il parroco quello di priore dell’antico priorato camaldolese[9].

La vita quotidiana a S. Nicolò di Bosso 
Come si svolgeva la vita quotidiana nell’eremo ?
Il nome di romitorio, dato a S. Nicolò di Bosso già indica che il genere di vita dei monaci era intermedio fra la forma anacoreta e cenobita[10], infatti, i monaci si riunivano nella chiesa di S. Nicolò soltanto in alcune circostanze, probabilmente nei giorni festivi e nelle solennità principali, mentre negli altri giorni dell’anno vivevano in celle separate e ad una certa distanza l’una dall’altra. Ancora oggi è possibile vedere i ruderi di almeno cinque celle sparse nella vallata della Romita, sotto al Pagliaio del Diavolo, alcune nei pressi dell’Ara delle Sette Fonti, altro toponimo che, probabilmente, affonda le sue radici in quell’epoca.

I ruderi di una delle celle utilizzate dagli eremiti di San Nicolò nei pressi dell'Ara delle Sette Fonti.
Le celle erano sparse nella fitta boscaglia, che a quei tempi presumiamo fosse frequentata da pochissima gente, poiché la via di comunicazione fra la vallata di Pianello e Cagli non passava a fondovalle, come avviene oggi, bensì si svolgeva lungo i crinali più alti di monte Nerone per scendere poi verso Via Stratta e quindi Cagli, e tutto ciò assicurava ai monaci la possibilità di condurre una vita effettivamente solitaria e pienamente spirituale.
Le celle, che servivano agli eremiti per abitazione e luogo di preghiera, alcune composte di un solo vano di circa due metri per due metri, mentre altre composte di due vani di dimensioni simili, avevano tutte un piccolo appezzamento di terreno, contiguo o poco distante, probabilmente coltivato ad orto per trarne un minimo di alimentazione, unitamente forse a qualche piccolo animale quali capre, galline, da cui ricavare latte ed uova.
E’ facile supporre che l’alimentazione dei monaci fosse particolarmente povera, inoltre se a ciò aggiungiamo gli stenti dovuti al freddo invernale, ci possiamo facilmente figurare nella mente queste piccole figure di uomini, durante le nevicate invernali, chiusi forse per giorni dentro le loro minuscole celle con la sola compagnia di qualche animale, prima di poter ridiscendere in fondo alla valle per vedersi con i confratelli !               
Alcune celle erano invece ricavate murando a secco delle pietre davanti agli anfratti naturali, piuttosto frequenti nella zona, ed anche di tali celle è possibile ancora oggi osservarne alcune. 

Una delle celle ricavate sfruttando le cavità naturali della Valle dell'Eremita e di Val della Barca.
Della chiesa restano oggi soltanto alcuni ruderi delle mura perimetrali e della cripta, mentre al tempo in cui scriveva V. Faraoni[11], nel 1935, erano ancora visibili le tracce di un mulino che doveva funzionare per uso esclusivo degli eremiti, il cui canale di gora era stato parzialmente scavato nella roccia sulla destra del fiume. Probabilmente si tratta del mulino per la macinazione del grano costruito nella zona da Nicolò Brancaleoni della Rocca intorno all’anno 1333. 
A una quota superiore a quella del Pajaro del Diavlo si trova un'antica cava di pietra, su un lato della quale sono ancora ben visibili i resti di una cella con la porta d'entrata ben delineata.
L’acqua di San Nicolò
Il romitorio, infine, ha lasciato il nome a una sorgente che sgorga poco lontano dal luogo ove era ubicata la chiesa e che ancora oggi è chiamato “bagno di San Nicolò”. L’acqua della sorgente, in passato, era ritenuta dotata di qualità terapeutiche molto efficaci per la cura delle malattie della pelle e vi si faceva ricorso per curare i bambini dalla scabbia e da altre malattie simili. Molto probabilmente l’associazione tra acqua, particolari qualità terapeutiche e San Nicolò, richiama in modo diretto il fenomeno della “manna di San Nicola”, ovvero un’acqua pura e trasparente che si forma nella tomba dove vengono conservate le reliquie del santo nella Basilica di San Nicola a Bari, alla quale sono attribuite dai devoti proprietà miracolose. In realtà studi recenti hanno dimostrato che l’acqua di San Nicolò di Bosso non ha nessuna caratteristica di rilievo se non quella di essere sempre, anche in piena estate, particolarmente fredda e limpida e quindi viene molto apprezzata dai “bagnanti” estivi, poiché il refrigerio che offre, anche nelle giornate più calde e afose è immediato e duraturo.

Un'altra visuale del Pajaro del Diavlo con, sullo sfondo, la Valle dell'Eremita. (Foto Manlio Magnoni)


Nota degli autori: Molti dei contenuti del presente articolo sono stati tratti dal libro "Pianello di Cagli - Viaggio nella storia di una vallata" al quale rinviamo coloro che fossero interessati ad approfondire il contesto storico della vallata di Pianello di Cagli.
http://versacrumricerche.blogspot.it/p/pianello-di-cagli-viaggio-nella-storia.html

Per coloro che fossero interessati a visitare la zona consigliamo invece di accedere al portale di escursionismo MyOutdoor dove al link sotto specificato potrete trovare la traccia e le informazioni relative al "Giro del Pajaro del Diavlo": http://www.myoutdoor.it/marche/percorsi/giro-del-pajar-del-diavlo/


© 2015 by Gabriele Presciutti, Maurizio Presciutti, Giuseppe Dromedari - Tutti i diritti riservati




[1] G.Buroni – La Diocesi di Cagli – Urbania 1943
[2] O.Turchi – De Ecclesia camerinensis pontificibus – Roma 1762 pag.132
  A.Vernarecci – L’abbadia di S.Vincenzo presso il Furlo  - Pesaro 1896 pag.8 
[3] G.Palazzini – S.Romualdo e le sue fondazioni tra i monti del cagliese – Studia Picena
[4] G. Buroni – op.cit. – pag. 130
[5] G.Palazzini – S. Romualdo e le sue fondazioni nel cagliese – Studia Picena
[6] A. Gucci – Memorie della città di Cagli – foglio 37
[7] G. Palazzini -  S.Romualdo e le sue fondazioni nel cagliese – Studia Picena
[8] V. Faraoni – Memorie di amtichi monasteri nella diocesi di Cagli – Studia Picena n.11/1935
[9] G. Palazzini – op.cit.
[10] V. Faraoni – op.cit. – pag.75
[11] V. Faraoni – Memorie di antichi monasteri nella diocesi di Cagli – Studia Picena n.11 - 1935

1 commento:

  1. Cari autori, mi dispiace molto che pur conoscendo bene il mio testo su Secchiano non avete per niente citato il libro.

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