Malidittu chillu filu - L'arresto del brigante Musolino a Farneta di Acqualagna (PU)



L'immagine utilizzata dalla Domenica del Corriere per la copertina del fascicolo dedicato alla cattura del brigante Musolino a Farneta di Acqualagna (Pu)


   Il pomeriggio del 9 ottobre 1901, si concluse in una vigna di Farneta, una località del comune di Acqualagna (Pu), la fuga del brigante più famoso degli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900, Giuseppe Musolino.
   Sulla vita e sulle gesta del brigante Musolini sono stati scritte decine di libri, sono stati realizzati film, documentari, rappresentazioni teatrali e canzoni, ma il recente ritrovamento, nell’archivio dell’ospedale psichiatrico dove si è conclusa la sua vita, della cartella clinica e dei taccuini autobiografici del famoso bandito, ha gettato nuova luce sulla vicenda, dandoci l’opportunità di conoscere il racconto che fa della sua cattura lo stesso Musolino.
   Ampi stralci del contenuto dei taccuini del brigante sono stati pubblicati in un bellissimo articolo a firma di Rosita Gangi, apparso sul n.310 del 5 novembre 2017 del settimanale La Lettura del Corriere della Sera.
   Musolino era nato il 24 settembre 1876 in Calabria, in Aspromonte, e divenne “brigante” dopo essere stato accusato del tentato omicidio, nell’ottobre 1897, di Vincenzo Zoccali, ferito a colpi di fucile il giorno dopo aver avuto in un’osteria una rissa con lo stesso Musolino.


Giuseppe Musolino (https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1715428)
   A incolpare Musolino, che all’epoca aveva 21 anni, sarebbe stata la sua coppola ritrovata sul luogo dell’attentato. Il presunto attentatore si proclamò innocente, ma due testimoni, il fratello del ferito Rocco Zoccali e un compaesano, Stefano Crea, giurano il falso e Musolino, in virtù di queste testimonianze, fu condannato a 21 anni di carcere.
   Musolino giurò vendetta contro i due mendaci e il 9 gennaio 1899 riescì a fuggire dal carcere di Locri e si mise alla caccia dei due accusatori e dei loro fiancheggiatori e li uccise senza pietà, aiutato e coperto dalla gente del posto, contadini, caprari, braccianti, che lo vedono come un simbolo della lotta contro l’ingiustizia e ne fecero un mito. Nei primi 8 mesi di latitanza commise 5 omicidi e 4 tentati omicidi, inoltre tentò di distruggere con la dinamite la casa degli Zoccali, i suoi acerrimi nemici.
   Sulla sua testa fu posta una taglia di 5.000 lire e i carabinieri tentarono in tutti i modi di catturarlo. Musolino, però, riusci ad evitare ben due trappole tesegli dai carabinieri, mentre le sue gesta, grazie ai rotocalchi, diventarono note in tutta Italia e anche all’estero facendo appassionare l’opinione pubblica al racconto dei suoi crimini e delle sue peripezie, al suo “romanzo criminale”.  
   Ma la rete intorno a Musolino si stava stringendo in modo inesorabile e allora questi, per sfuggire alla morsa, decise di lasciare la Calabria e, seguendo mulattiere e sentieri non battuti, si nascose nell’Appennino, a cavallo fra Marche e Umbria, ma a pochi chilometri da Acqualagna la sua vicenda, ormai mitica, si concluse in modo rocambolesco.
   L’arresto avvenne infatti in modo del tutto casuale, per opera di una pattuglia di carabinieri composta dall’appuntato Amerigo Feliziani, originario di Baschi (Tr) e Antonio La Serra di San Ferdinando di Puglia, i quali stavano cercando l’assassino di un loro giovane collega ucciso nelle campagne del pesarese, Michele Viviani. Musolino era latitante da due anni e nove mesi e, all’intimazione di fermo rivoltagli dai due carabinieri, pensò che stessero cercando proprio lui e allora, dopo un attimo di indecisione, tentò di scappare attraverso una vigna, ma un filo teso lungo un filare lo fece inciampare e cadere, permettendo ai due carabinieri di giungergli addosso e di catturarlo. La pattuglia era comandata dal brigadiere Antonio Mattei, padre del più famoso Enrico divenuto in seguito presidente dell’Eni, in quel momento in caserma a causa di un’indisposizione.
   Ma lasciamo ai taccuini di Musolino e poi ai diari di Feliziani il racconto in prima persona di quegli istati concitati e importanti. 


I diari di Musolino ritrovati negli archivi dell'ospedale psichiatrico di Reggio Calabria
(Fonte: La Lettura n.310 del 5.11.1017)
   Questo il racconto di Musolino scritto sui suoi taccuin[1]i: “Dopo aver camminato un’intera notte, mi sentivo stanco e trovandomi in un luogo sicuro o voluto riposarmi un po’ nel margine di un fiume, vi era un sasso grossissimo e di dietro mi sedette, mi accese un mezzo sigaro e mi mise a fumare tranquillo. Ad un tratto senti un scarpiciare di cavallo, però nessuna impressione mi fece restare lì fermo fino a quando questo si avvicinò. Avvicinandosi a distanza di pochi metri, un altro in piede ed ecco che lui si fermò, non ci siamo parlato affatto, ci guardavamo in faccia e senza dir niente, fa dietro front e ritorna indietro. Dato il suo splicito ritorno o pensato che in quel luogo non ero più sicuro e decise di incamminarmi a trovare un altro posto migliore.
   Il terreno era quasi scoperto esistevano solo piante bassissime. A distanza vedo tre carabinieri. Venivano in mia direzione. Non di meno non mi spaventavano perché pensavo che una terra così lontano dalla mia non erano in conoscenza del mio nome, certo mi pigliarono per un contadino e mi lasciarono andare – e così si avvicinano fino a quando sono arrivato di fronte- lì mi fermarono, ed ecco in quell’attimo non sapevo decidere come fare o non fare la battaglia o scappare, dunque era più conveniente scappare. E così gli scappai.
  Vado a finire in un vigneto ove in mezzo le vite passavano dei fili di ferro che disgraziatamente uno di questi , nel sartarlo, si attaccò alla scarpa e cadde a terra facendomi del male nel petto. Ed ecco che per questo i carabinieri mi giunsero e si buttarono a dosso, però io insistevo a non farmi arrestare mentre uno di questi dice a gli altri metteteci le catene al collo e mi strinsero infortamente fino a quando mi fecero perdere il respiro. Ed ecco che li ho dovuto cedere, mi condussero in caserma, li mi hanno interrogato come mi chiamavo. Io diede il nome falso Calafiore Giuseppe”.  
   A nulla valse l’estremo tentativo di Musolino di sfuggire all’arresto attribuendosi un nome falso, infatti fu processato con gran clamore di folla a Lucca e venne condannato all’ergastolo e concluse la sua esistenza nell’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria, dove morì il 22 gennaio 1956, affetto da gravi problemi psichici.   


L'appuntato Amerigo Feliziani
(https://www.ilgazzettinobr.it/cultura/item/6301-amerigo-feliziani,-il-carabiniere-che-arrest%C3%B2-il-brigante-musolino,-ferito-a-mesagne%E2%80%A6.html)

   Questo, invece, il racconto che scrisse in un suo diario l’appuntato Feliziani[2]: “… era il pomeriggio del 9 ottobre 1901, il brigadiere mi comandò di perlustrare insieme con il commilitone La Serra Antonio un area a ridosso della contrada Farneta con lo scopo preciso di rintracciare gli autori di un sanguinoso delitto che aveva aspramente amareggiato i nostri animi: l’uccisione del giovane carabiniere Michele Viviani in una campagna nella provincia di Pesaro, compiuta non si sa da chi, ma attribuita a dei girovaghi.
   Ad un certo punto, in un terreno coltivato, vedemmo un individuo che dal modo come si aggirava, destò in noi qualche sospetto. Il mio compagno ed io ci guardammo in viso: - che sia uno degli assassini del nostro commilitone? – E ci dirigemmo verso di lui. Si trattava di un giovanotto aitante, robusto, elastico. Dopo averci scorto lo sconosciuto volle simulare una perfetta indifferenza e fece come per venirci incontro. Poi ad un certo punto se ne andò verso una casa colonica. Si radicò allora in noi la convinzioni che si trattava di un latitante. Piombammo nel casolare: il collega La Serra rimase sulla strada ed io salii di sopra. L’individuo nessuno lo conosceva, non era entrato, ma soltanto passato vicino sfiorando una donna che gli sentì dire, come parlando a se stesso: “Sono carabinieri”.
   In quel mentre guardando fuori dalla finestra mi accorsi che egli si trovava ad un trecento metri di distanza e camminava in direzione di una collinetta evidentemente per nascondersi.
  Ritornai in strada ed immaginando che il misterioso individuo avrebbe preso il sentiero campestre che fiancheggiava la strada, ci dirigemmo su questo per incontrarlo sulla direzione opposta. Il mio collega non poteva correre a causa di una recente convalescenza. Fu così che io lo lasciai indietro per tema che la preda sfuggisse. Scavalcata la collinetta mi trovai vis a vis con il giovane a pochi metri di distanza.
  Questi cercando di mascherare il suo turbamento fingeva di volermi passare accanto, ma io gli intimai di fermarsi. Egli si arrestò un istante perplesso e poi si dette alla fuga. Io perdetti il lume degli occhi, sicuro di aver rintracciato l’assassino del nostro commilitone. Mi detti ad inseguirlo, e quando gli ero già a cinque o sei metri lo vedo cadere. Aveva inciampato sul filo metallico di una vigna, inciampo anch’io e gli sono sopra come un bolide, lo afferro con una mano per il collo e con l’altra per il braccio destro e con le ginocchia lo premo sull’addome con tutte le forze dei miei ventiquattro anni centuplicate dal desiderio di vendicare il mio povero commilitone di Pesaro.
   Lo sconosciuto si divincola e cado anch’io; ci dibattiamo tra le zolle, ma non lascio neppure per un attimo la preda. Riesce ad impugnare la rivoltella con la sinistra e cerca di alzarsi. Io sdrucciolo, ma fortunatamente lo afferro per le gambe ed egli è di nuovo con me a terra. Lo abbraccio e riesco ad afferrarlo con i denti all’orecchio destro.
  Frattanto giunge l’altro milite. In due dopo una lotta disperata, ma in cui avemmo sempre il sopravvento, riuscimmo a ridurlo all’impotenza.
 Allora egli divenne cortese e supplicò di non mettergli le catenelle perché era un galantuomo e che non aveva nulla a che fare con la Giustizia, tentò di offrirci 250 lire in cambio della sua libertà. Naturalmente gli vennero messe le catenelle e lo perquisimmo.
  Era in possesso di una rivoltella, di un pugnale a serramanico lungo venti centimetri, di alcuni sigari e di una ciotola di capelli grigi che poi sapemmo appartenere alla zia Filastò, alla quale era particolarmente affezionato. Indossava calzoni color caffè, giacca scura alla cacciatora e berretto: al collo un fazzoletto affumicato per il lungo viaggio in ferrovia. Aveva inoltre un cappello a cencio per cambiarsi d’aspetto ed un foglietto stampato con la Passione di Gesù con la scritta: chi porterà sempre con sé questa devozione non morrà di morte violenta…”.
   Musolino,  il bandito che nella sua fuga dall’Aspromonte si era portato dietro i capelli grigi dell’amata zia Filastò le tentò tutte prima di arrendersi, anche la corruzione, offrendo 250 lire ai carabinieri che lo avevano fermato, ma ormai il suo destino, a Farneta di Acqualagna, era segnato: “Malidittu chillu filu!”. 


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[1] Le trascrizioni dei taccuini di Musolino sono state tratte dall’articolo di Rosita Gangi, Delitti, leggende e follia. Il vero brigante Musolino, La Lettura n.310 del 5 novembre 2017.
[2] Il racconto dell’appuntato Amerigo Feliziani è stato ricavato dal seguente sito internet: https://www.ilgazzettinobr.it/cultura/item/6301-amerigo-feliziani,-il-carabiniere-che-arrest%C3%B2-il-brigante-musolino,-ferito-a-mesagne%E2%80%A6.html consultato il 8 dicembre 2017.

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