Il giorno della memoria dedicato al parroco di Secchiano deportato dai nazisti a Mauthausen dove mori nel 1944
di Paolo Faraoni
Il Giorno della Memoria è una
ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di
ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione
60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni
Unite del 1º novembre 2005.
Una vittima innocente è stata anche il parroco di
Secchiano Don Giuseppe Celli, e per
ricordarlo degnamente è importante far conoscere la storia del tradimento e del
suo martirio, ricordata in modo esemplare dal secchianese intellettuale Virgili
Giuseppe di cui riportiamo l’appendice del libro a cui ha lavorato per tanti
anni: “LA STRADA PER PIETRALUNGA”. Presupposti e aspetti della Resistenza nel
Cagliese e nell’Egubino.
Di credo liberale e antifascista aveva avuto come spirito guida il
parroco di Secchiano Don Giuseppe Celli, deportato dai tedeschi a Mauthausen
dove mori nel 1944.
Nel
libro “Peppin” ci racconta la sua giovinezza passata a Secchiano, e la storia di tanti personaggi del paese, del
molino e soprattutto alcuni gli aspetti della Resistenza locale.
In Appendice al libro, troviamo il ricordo di Don Giuseppe Celli, scritto in
occasione del 13 Agosto 1994 nel 50
anniversario del suo martirio e morte,
e che riporto integralmente sicuro
di onorare e di far contento il nostro caro amico “Peppin”.
Nel
50° anniversario del martirio e della morte di Don Giuseppe Celli, Priore di
Secchiano, avevo avvertito l'esigenza di fissare per iscritto il mio ricordo di
questa figura fulgida per umanità, dottrina e retta coscienza che ha pagato con
il martirio per il suo essere “particolare” come sempre è accaduto e accadrà
nella vicenda umana.
Saputo poi della
richiesta di esternare il mio ricordo di Lui in occasione della celebrazione
che è stata organizzata per questo anniversario, approfitterò di leggere le mie
annotazioni in proposito.
Il
ricordo della figura “particolare” di Don Giuseppe Celli corre con la memoria
della mia vita, anche se l'incanto dell'infanzia e dei tempi intensi della
Resistenza coincidenti con la prima giovinezza, può indurre proustianamente ad
adagiarsi sull'evocazione stemperata e quindi sublimata, ma non è così, il
ricordo di Lui è rimasto in me ben netto, come indelebile lezione di conoscenza
e di moralità, fissata sulla pietra come quella impartita da un insostituibile
ed inimitabile pedagogo.
I
concetti, i giudizi, le considerazioni che ho appreso ed appurato conversando
con Lui sulle vicende storiche tra la prima e la seconda Guerra Mondiale, i
contenuti delle grandi idealità politiche dei nostri tempi sono rimasti in me
impressi come opera rifinita di un grande docente, in cui, poi, nei decenni
successivi ho sempre trovato e ritrovato il giusto orientamento.
È
singolare che in questi ultimi tempi, per non parlare di questi giorni, abbia
visto verificarsi quello che Lui intravedeva e pronosticava.
Vado per iniziare
il ricordo di Don Celli alla mia infanzia; rivedo la figura dal passo pesante
che tutti i giorni, esclusa la domenica, percorreva la strada comunale da Secchiano
a Cagli e viceversa; al ritorno al tramonto o alle prime tenebre spesso si
fermava al Molino e cercava di mio padre che sempre l'accompagnava per un buon
tratto, che percorrevano lentamente parlando fitto.
Io,
appena ragazzo, chiedevo a mia madre, fervente credente, come mai questo prete dall'aspetto
burbero e dal comportamento distratto, parlasse con trasporto con mio padre e spesso
a Cagli con lo zio Petronio, avvocato, visto che entrambi non frequentavano la
chiesa e che erano radicati antifascisti.
Mia
madre, un po’ pensosa spiegava che sì il fatto poteva apparire strano, ma che
il prete era persona di grande bontà, oltre che di profondo sentire e sapere e
aggiungeva “mai parla di cose sciocche”. Capii allora che il tema dei discorsi
del prete con mio padre e mio zio era la comune convinzione antifascista.
Poi
vennero gli anni cruciali 1943-1944, io ero oltre la pubertà e nel clima della
mia famiglia partecipai subito alle vicende che si snodavano a margine del
conflitto non troppo lontano dalle nostre regioni.
Pochi
giorni dopo l’8 settembre cominciarono ad affluire per la nostra vallata
profughi e prigionieri di guerra a gruppi e coppie, che tentavano di
raggiungere le linee del fronte per passare agli eserciti alleati che
lentamente risalivano la penisola.
Così
mi trovai accanto a Don Giuseppe ad organizzare l'accoglienza, il
rifocillamento e l'avvio a destinazione di soldati e ufficiali alleati,
soprattutto inglesi.
Quante
volte Don Giuseppe sommessamente mi chiamava sulla soglia della mia casa ed io
prontamente con la bicicletta conducevo i fuggitivi oltre Cagli sulla strada di
Pergola, dopo che con non curanza” e circospezione avevo percorso il limitare esterno
della nostra città. Per ore intere e lunghi giorni ebbi modo di stare a
contatto con Don Giuseppe, mentre il burbero e distratto prete parlava e
parlava della libertà e della democrazia.
La
questione essenziale per Don Giuseppe era quella di essere o non essere liberi;
l'uomo - Egli diceva - è persona in quanto ha coscienza di se e degli altri,
perché retta coscienza vuol dire rispettare gli altri e solo per questo si è
liberi. Di ciò l'individuo deve essere consapevole, altrimenti è solo un automa
che agisce per istinto ed impulso o bassa convenienza; l’individuo che così
agisce non può capire il prossimo e tende a prevaricarlo. Dalla libertà, diceva
il prete con tono ispirato e convinta espressione, discende la democrazia, cioè
il sistema politico con cui meglio si organizzano gli stati e si evolvono le società.
A
questi argomenti erano strettamente legati i discorsi sul fascismo e sul
nazismo immersi nel disastro immane che il mondo attraversava in quei giorni.
Dal fascismo Don Giuseppe aveva questo concetto: come la libertà e la
democrazia sono conquista dell'uomo civile, cioè della ragione e di acquisita e
consapevole dignità, così il fascismo era “immaturità, esercizio del puro istinto,
smarrimento e confusione”.
Ricordo
- come la vedessi adesso - la tozza figura che all'improvviso, mentre camminava
conversando, si fermava e girando su se stessa, con veemenza affermare “essi
sono pericolosi per se e per gli altri e per tanto devono cadere.
I suoi netti
giudizi erano però preceduti da accurati e circostanziali riferimenti, su come
il fascismo e il nazismo si fossero affermati; nel narrare il prete non
trascurava i particolari e i momenti significativi su come era avvenuta la
marcia su Roma, sulla vile remissività della Monarchia, le vicende di Giacomo Matteotti
e Giovanni Amendola.
Particolari
vicende che Egli conosceva perché apprese di prima mano da alti esponenti del
Partito Popolare che in quegli anni avevano partecipato a vari governi. Mi
parlava anche del Centro Cattolico Tedesco e di Goebbels che da quanto vi
militava - dimostrava già di essere un pazzo visionario.
No,
Don Giuseppe non era una persona comune, la figura di eminente sacerdote, la
cultura umanistica e infine l'approfondita preparazione politica e sociale che
aveva assimilato come pochi, gli avevano inculcato i principi del valore della
dignità dell'uomo nella libertà oltre che i concetti della concretezza e della
laicità della politica. Essa è soggetta, diceva Don Giuseppe, nei suoi rapporti
e sviluppi al contatto con le altre forze politiche e sociali.
In
quei giorni di grandi vittorie delle Armate Sovietiche che assestavano 1 primi
duri colpi al Nazismo, io gli chiesi anche cosa Egli pensasse del socialismo e
del comunismo; mi ricordo che si fermò a meditare e alzando verso me i grandi
occhi azzurri mi disse “dovranno cambiare ed accettare il metodo liberal-democratico,
perché da sola la giustizia non può soddisfare l'uomo, senza la libertà
l'essere umano non può fare niente”.
Parlava
poi, con voce venata di sarcasmo, degli uomini che non hanno ideali o che fanno
finta di averne, essi mi diceva: “sanno solo comperare e vendere o vendere per
comperare, convinti di guadagnare ma alla fine ci rimettono sempre, ma questo
aggiungeva, loro non lo capiranno mai, costoro - a suo giudizio - sono sempre
pronti ad asservirsi a qualsiasi regime per sfruttare sempre la situazione e
poi aggiungeva “per la democrazia sono pericolosi perché possono distruggerla
dal di dentro come fanno i vermi con la mela più bella e colorata”.
Un
uomo così fatto, un sacerdote di grande prestigio, di grande sapienza e
moralità fin da quegli anni, in quelle situazioni non poteva non avere dei
nemici. I farisei locali, avvezzi
a sfruttare il
potere, il rancore ideologico di chi ne era anche monopolizzatore, aspettavano
l'occasione per colpirlo. Appena dopo l’8 settembre, con affluire appunto degli
sbandati come ho già detto, Don Giuseppe offrì “coram populo” nell'osteria di questo
paese una cena ad un gruppo di jugoslavi.
E
ciò fu in seguito segnalato, tramite esposto di due fra le più squallide figure
del fascismo repubblichino, direttamente alla gendarmeria militare germanica,
che provvide nel gennaio 1944 ad inviare sul posto due agenti sotto mentite
spoglie di fuggitivi slavi.
Il 20 gennaio
1944 i due aspettavano il prete nel percorso Secchiano-Cagli, ma sembra che
l'approccio non fruttasse l’effetto voluto.
Ugualmente
i due con l’aiuto dei repubblichini arrestarono il prete unitamente
all'internato americano Foster, che abitava a Cagli nella nostra casa presso la
zia Caterina. I due furono portati assieme, sembra a Bologna, senonché il
Foster era un infiltrato del servizio di informazione militare germanico, anche
se in quei giorni era universalmente ritenuto “l’americano” una specie di
“Proconsole” degli alleati che dovevano arrivare e che come tale si comportava.
Ai capaci e raffinati inquisitori della Gestapo, non sfuggi la pericolosità che
per loro poteva avere la figura del prete che avevano davanti.
La
Resistenza stava montando, il clero a loro contrario poteva dire e fare molto e
quindi bisognava dare una lezione. I capi di imputazione contro il Celli non
erano però sufficienti per la pur sommaria giustizia nazista e a rimedio di questo
si provvide con il Foster di cui ovviamente il prete si fidava ciecamente. Per
racconto fatto a me direttamente dal Foster nel luglio 1944, egli stesso, di
notte, mi sembra di ricordare dietro un reticolato, avvicinò il Celli e
l'indusse a confessare la verità ai Tedeschi per la cena di Secchiano perché
lui lo sapeva bene, essi sarebbero stati magnanimi; l'importante era non ingannarli.
Dopo pochi giorni il Foster tornò a Cagli e Don Giuseppe fu avviato al campo di
punizione e sterminio di Mathausen.
Da
scritti, ricordi e cronache raccolti si sa che egli giunse alla stazione di
Mathausen nei primi di luglio 1944 in una notte di luna e le SS, saputo che
c'era un prete, lo caricarono, schernendolo, dei loro zaini. Un romano di
origine cagliese incontrò il Celli in pessime condizioni, addetto al traino di
un carro di cadaveri all'interno dei campo; un confratello ce lo descrive come
un povero essere abbandonato, “ingenuo come un bambino”.
Le
cronache ufficiali tratte dai documenti rinvenuti intatti nel campo riportano
che: Celli Giuseppe di Adriano nato a Cagli nel 1879 è morto nel castello di Artheim
il 15 dicembre
1944. Il castello
era la dipendenza del campo adibita ad esperimenti su esseri umani compiuti dai
medici delle SS.
Riporta
il documento ufficiale che dei 10.000 internati vivi avviati nessuno ne è
uscito vivo, gli esperimenti venivano fatti e i soggetti fatti morire, con i
forni crematori si pensava al resto.
Questa
è la vicenda di Don Giuseppe Celli come io l’ho vissuta e poi appresa; non
vorrei fare apprezzamenti apologetici; emerge però un’inoppugnabile verità e un
messaggio ineluttabile destinato a tutti, specie ai giovani.
Giovani
di Secchiano, ricordate che quel prete strano e particolare non era un uomo
qualsiasi. La profondità delle intuizioni, la morale adamantina, l’acume e
l'accuratezza con cui giudicava delle vicende politiche e sociali, erano segno
indelebile di grande intelligenza e di superiore visione del mondo e delle
cose.
Egli
non era difforme dal suo grande cugino Angelo, il più illustre dei cagliesi per
scienza, impegno sociale e politico, eminente e adamantina figura del nostro
Parlamento agli inizi del novecento.
Ricordate,
giovani, che il povero prete ridotto a larva umana usata per esprimenti e che
io ricordo singhiozzare dall’altare mentre predicava il discorso della
Montagna, l'’ingenuo “come un bambino”, il “mansueto”, il “povero di spirito”,
in mano ai carnefici più freddi e raffinati della storia non era lì per caso.
Per
i farisei locali, e il “sinedrio” della razza poi, per i teorizzatori dell'uomo
come “entità solo biologica” per cui gli inermi, i miti, i confusi dell'amore
per il prossimo non hanno spazio in questa terra in cui essi solo esseri
freddi, astratti senza speranza e pieni di terrore possono vivere, Don Giuseppe
era il nemico mortale; la coscienza della loro pochezza e miseria.
Qualcuno
ha detto “sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi”; sì, degli eroi si può
fare a meno, ma dei martiri no. Essi testimoniano per tutti anche per i loro
aguzzini che l'uomo non si ferma qui, egli è altro e va oltre.
Cari
giovani ricordate il Celli, il suo martirio e quando riuscirete a fermarvi a
riflettere, sappiate che il momento difficile viene per tutti inesorabilmente e
come dice Matteo “vegliate dunque perché non sapete né il giorno né l'ora”.
In
quel momento la figura di un martire che vi aspetta con la lampada accesa
potrebbe consolarvi.
Secchiano, 13
agosto 1994
Dedica del libro fatta da Giuseppe Virgili:
Ai miei nipotini Emilie e Daniel
perché conoscano parte delle loro radici
e a tutti i giovani della città di Cagli
e della vallata del Bosso
perché trovino argomento
per parlare di storia della loro terra.
LAPIDE DEDICATA A DON GIUSEPPE CELLI, AFFISSA SOPRA LA
PORTA DELLA CANONICA DELLA PARROCCHIA DI SECCHIANO
La lapide, inaugurata nell’ottobre 1945, è stata affissa ad opera del
Comitato di Liberazione Nazionale (autore dell’epigrafe è monsignor Faraoni Vincenzo) testo:
VIVA QUI’ PERENNE LA MEMORIA DI / DON GIUSEPPE CAN. CELLI / PRIORE BENEFICO
SAPIENTE ˕ APOSTOLO / DI CARITA’ E DI LIBERTA’ ˕ DEPORTATO / UCCISO NEL CAMPO
DI MAUTHAUSEN / IL XV AGOSTO MCMXLIV ~ / IL SUO SACRIFICIO SUONI MONITO / DI
CIVILE CONCORDIA NELL’ETERNA / LEGGE DI CRISTO FRA GLI UOMINI
Notizie e contestualizzazione storica (testo tratto dal sito www.pietredellamemoria.it):
Don Celli è anche ricordato in un articolo del Resto
del Carlino del 2011 “CAGLI _ Giornata
della Memoria in Prefettura a Pesaro, ma a Cagli è stato notato che non tutti
siano stati ricordati. Infatti ci si è dimenticati di un prete cagliese
deportato nel campo di sterminio di Mathausen nel 1944, il parroco di Secchiano
Don Giuseppe Celli.
Fu arrestato dai nazifascisti nel 1944 perché accusato di
aver nascosto nella sua canonica soldati alleati sbandati nella zona e fu prima
deportato a Pesaro al comando Tedesco e poi nel campo di Fossoli. Vani furono i
tentativi per liberarlo da parte dell’allora Vescovo di Cagli, Mons. Raffaele
Campelli che si recò anche a Bologna presso il comando delle S. S. per
intercedere sul suo rilascio, ma invano.
Poco dopo da Fossoli fu trasferito con
quei carri ferroviari dove erano ammassati ebrei, spie, prigionieri politici,
arrivò nel campo di Mathausen. Debilitato e sofferente per l’età avanzata, fu
impiegato nei lavori forzati in una cava di pietra nei pressi del campo dove vi
era un dirupo dalla cui sommità i nazisti lanciavano nel vuoto i prigionieri
più vecchi o ormai senza più forze per continuare ad estrarre la pietra. Con il
lancio nel vuoto avveniva un macabro divertimento da parte delle S.S. , una
sorte di tiro a segno sparando su questi prigionieri mentre erano in caduta
libera ed ancora vivi. Poi dalla cava i prigionieri ormai senza vita, venivano
condotti nei forni crematori. E Don Giuseppe Celli, come narrano alcune vecchie
testimonianze di prigionieri riusciti a sopravvivere, venne cremato il 15
agosto del 1944. Pochi giorni prima della liberazione della sua città. Cagli fu
infatti liberata il 22 agosto 1944 e poco dopo venne intitolata a Don Giuseppe
Celli una via che parte dalla piazza e nella sua casa lungo il Corso XX
Settembre fu affissa una lapide tutt’ora esistente. Pertanto non averlo
ricordato in Prefettura come tanti altri è stata una dimenticanza non
trascurabile. E per di più a Don Giuseppe Celli, forse tra i pochi se non
l’unico in provincia ad aver finito i suoi giorni in un campo di sterminio
nazista, non era mai stata messa la sua foto nella grande lapide che ricorda i
caduti della Provincia, nel Piazzale Collenuccio a Pesaro.
Fu il Carlino a
segnalare qualche anno fa questa dimenticanza e la foto di Don Giuseppe Celli
fu finalmente affissa come tante altre dei vari caduti. Quindi un “prete” più
volte dimenticato e che ha subito atrocità inumane. Non sarebbe giusto non
dimenticarsi più di questa figura simbolo delle atrocità subite dalla furia
nazista? Anche per don Giuseppe Celli, nel “Giorno della Memoria” era forse
opportuno ricordarlo e menzionarlo nell’elenco di coloro che come lui subirono
le barbarie della guerra e delle deportazioni.”
ALTRE NOTIZIE SU DON GIUSEPPE CELLI
Dal libro Mantelli-Tranfaglia Il libro
dei deportati Vol. I
Don Giuseppe Celli morì il
15 dicembre 1944 nel castello di Hartheim nei pressi di Linz
Il
Castello di Hartheim era originariamente un luogo di cura per bambini malati di
mente curati da un gruppo di suore del convento di Alkoven. Nel 1940 i nazisti
scacciarono le suore e la struttura venne trasformata in un centro di
eutanasia, nell’ambito dell’operazione T4, ovvero dello stermino dei portatori
di malattie mentali e di portatori di handicap. Si sa che nel corso
dell’operazione eutanasia ad Hartheim, sotto la direzione di Christian Wirth,
più tardi impegnato a Belzec e alla Risiera di San Sabba a Trieste, tra il
maggio 1940 e l’agosto 1941, sono stati eliminati 18.269 handicappati. Al
fianco di Wirth anche Franz Stangl che sarebbe diventato il comandante dei
lager di sterminio di Sobibor e di Treblinka. Le vittime erano pazienti
sofferenti di senilità, epilessia, disturbi neurologici. Ma anche lungodegenti
o criminali malati di mente o accusati di reati contro la morale, storpi,
invalidi di guerra, ciechi, sordomuti, mendicanti.
Tutti
furono assassinati con gas venefico e con altri metodi orrendi e crudeli.
Questo sterminio venne autorizzato direttamente da Hitler con un ordine segreto
ai medici “per permettere loro (…) di consentire una morte misericordiosa ai
malati giudicati incurabili”. Ballast–Existenzen, cioè esistenze
insignificanti! Dal 1941 al 1945 venne praticata l’eutanasia selvaggia e
vennero eliminati migliaia di esseri umani fastidiosi o incapaci di lavorare,
sopprimendoli con supposte di luminal o prodotti simili, dopo averli privati
totalmente del cibo. Ultimato lo sterminio dei malati di mente, il Castello di
Hartheim venne impiegato per l’annientamento dei prigionieri politici. Venne
modificato il personale ma rimasero i grandi autobus della ferrovia del Reich, con
i finestrini dipinti di bianco e altri mezzi di trasporto, oltre al cosiddetto
“mulino delle ossa”. Vennero rinnovate le scorte di gas mortale, contenuto in
bombole d’acciaio, riempite nella fabbrica di Ludwingshafen di proprietà della
IG – Farben. Venne anche approntata una abbondante scorta di carbone per il
crematorio, attivo dalla Pasqua del 1940. Rimase ovviamente in funzione la
camera a gas. Per motivi di segretezza i trasporti della morte vennero indicati
con un codice. In questo caso su ordine di Himmler dell’aprile 1941, “14f 13”,
trattamento speciale dei detenuti malati e deboli. Per gli stessi motivi
Hartheim veniva indicato nei registri dei lager come “lager di riposo”, “lager
di cura” ” sanatorio di Dachau”, o con altre altrettanto ingannevoli
definizioni.
Il
primo trasporto per Hartheim fu di 70 ebrei olandesi da Mauthausen l’11 agosto
1941. Il giorno seguente altri 80 prigionieri di diverse nazionalità. Il 14
agosto 45 prigionieri arrivarono da Gusen. Nel corso del 1941 si possiede
documentazione per un totale di 1.168 prigionieri eliminato ad Hartheim. Ma si
può ragionevolmente ipotizzare che, data la carente documentazione, gli
assassinati siano stati circa 1.580. Nel 1942 i “viaggi della morte” portarono
alla camera a gas del castello 3075 detenuti.
Non
si conoscono dati relativi a assassini per gas nel 1943. Nel 1944, l’11 aprile,
vennero ripresi i trasferimenti ad Hartheim. Gli ultimi prigionieri provenienti
da Mauthausen giunsero ad Hartheim probabilmente il 10 febbraio 1944 e vennero
gasati immediatamente. Ogni trasporto effettuato con l’autobus era scortato da
una SS. Una volta arrivato al castello, l’autobus si fermava vicino a una
legnaia esternamente non visibile, situata nella parte occidentale del
castello. Attraverso un’entrata secondaria le vittime dovevano giungere nel
“cortile delle arcate” e poi nello spogliatoio. Una volta denudatisi entravano
nella “stanza delle riprese” (ove oggi è situato il luogo di commemorazione).
Nella stanza vi era un impianto fotografico per riprendere alcune delle
vittime. Le persone che avevano denti d’oro venivano contrassegnate, in modo
che fosse possibile recuperare il metallo dopo l’eliminazione. Infine entravano
nella camera a gas. Era una stanza di 6.60 per 4.20 metri. Il pavimento
dapprima di assi di legno, venne poi cementato ed infine ricoperto di
mattonelle rosse. Piastrelle coprivano le pareti fino ad un’altezza di 1.70
metri. Sul soffitto un tubo per le condutture dell’acqua con tre rubinetti per
la doccia. Lungo tre pareti e sul pavimento un tubo del gas con numerosi buchi
dal diametro di 15 millimetri. Da questo tubo usciva il gas, liberato nell’aria
da un medico delle SS da una bombola che era collocata nella stanza accanto. I
cadaveri veniva inceneriti nel crematorio e le ceneri, dopo essere state
polverizzate nel “mulino delle ossa”, gettate nel Danubio e nel Traun.
Da
60 a 80 persone erano addette alle uccisioni con il gas. Ogni 10.000 cadaveri
bruciati, si tennero feste con discorsi, razioni speciali di sigarette, di
alcool e si organizzarono viaggi collettivi nel circolo degli SS – Unterführer
di Mauthausen con banchetti e musica.
Il
4 settembre 1945, a Linz, Vinzenz Nohel, fuochista del crematorio testimoniò
che ad Hartheim erano state assassinate complessivamente circa 30.000 persone.
Nohel venne condannato a morte nel 1946 e la sua esecuzione eseguita a
Landsberg.
Dai dati forniti da Pierre Serge
Choumoff si ricava che, nell’ambito delle morti “14f 13” le vittime
identificate sono state 8.066 così suddivise: provenienti dal KL Dachau 3.025, dal KL Mauthausen 3.011, dal KL
Gusen 1.830.
Ad
Hartheim vennero portati detenuti anche detenuti di altri KL. Da Ravensbrück vi
furono due trasferimenti di donne, come risulta dalla testimonianza di Pereival
Treite, rilasciata l’8 aprile 1947. 1.000 prigionieri di guerra sovietici,
partiti dal KL Buchenwald il 19 maggio 1942 per Mauthausen non vi arrivarono
mai. È ragionevole ritenere che siano stati gasati ad Hartheim. La stessa sorte
potrebbe essere toccata a 189 donne del corpo medico dell’Armata Rossa che il
17 ottobre 1943 dovevano essere trasferite ad Auschwitz, ove mai giunsero.
Uguale
destino potrebbe essere stato quello di 434 deportati ebrei, tra cui molti
bambini. La direzione “medica” era alle dipendenze del medico di Linz, Rudolf
Lonauer, un fanatico nazista appartenente alle SS. Successivamente, dal 10
settembre 1943 venne nominato suo sostituto il medico nazista Georg Renno.
Anche i loro collaboratori erano fanatici nazisti e razzisti e tutti prestavano
servizio volontario. Lonauer si uccise probabilmente il 5 maggio 1945. Il dr.
Renno esercitò la professione di medico nella Repubblica Federale Tedesca.
Portato in giudizio, il processo venne sospeso perché ritenuto, sulla base di
un certificato medico, “incapace di intendere”.
Alla fine del novembre 1944 un
ordine emesso a nome della Cancelleria del Führer diede il via allo
smantellamento del Castello di Hartheim. Tra il 12 e il 19 dicembre 1944, poi
tra il 2 ed il 15 gennaio 1945, un commando di lavoro (20 operai muratori,
falegnami, fabbri) venne inviato da Mauthausen al Castello per “bonificarlo”:
vennero distrutte la camera a gas, le attrezzature del crematoio, il mulino
delle ossa e tutto quanto potesse rivelare ciò che di atroce vi era stato
commesso. Il prigioniero spagnolo Miguel Justo Compane (matricola 3765) chiuse
in una bottiglia le memorie scritte durante il suo lavoro ad Hartheim. Questo
testo, ritrovato durante i lavori di costruzione del monumento a memoria dei
caduti, ha permesso di sapere che lo spagnolo aveva murato il 18 dicembre 1944
la porta che immetteva nella camera a gas.
Nel
gennaio del 1945 i nazisti permisero ad alcune suore di carità, cacciate a suo
tempo da Hartheim, di ritornare. Dando loro in affidamento alcuni bambini
malati. Il Castello era tornato al suo splendore rinascimentale. Mancava solo
una grondaia, tolta nel 1939 quando si iniziò la costruzione del crematorio.
Dalle
ricerche di Italo Tibaldi, superstite di Ebensee e vicepresidente del Comitato
Internazionale del KL Mauthausen, risultano essere stati non meno di 303 gli
italiani “deceduti in sanatorio” cioè gasati ed inceneriti al Castello di
Hartheim. Dieci di loro erano nati a Roma.
“Fino
al settembre 1944 aveva funzionato l’autobus azzurro: era un autobus che
partiva due volte alla settimana dal campo per portare gli invalidi e i malati
ad un “sanatorio”: ne caricavano settanta alla volta, ma invece di portarli al
“sanatorio” si accontentavano di portarli a un forno crematorio speciale
installato in un castello a circa 10 km dal campo, sulla strada di Linz.”
(Giuliano Pajetta – matricola 110352).
Tratto da:
(ANED FONDAZIONE MEMORIA DELLA
DEPORTAZIONE)
Ringrazio Virgili Desiderio per avermi aiutato nelle ricerche.
© 2019 by Paolo Faraoni - Tutte le immagini sono state fornite dall'autore
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