Il terremoto del 3 giugno 1781 nella Contea del Fumo

di Stefano Lancioni


Il territorio della Contea del Fumo - elaborazione grafica dell'Autore

La cosiddetta “Contea del Fumo”, piccolo feudo dell’Apecchiese, era una “rata” della contea di Montefiore sempre rimasta legata alla famiglia Ubaldini di Jesi che, dal Cinquecento alla fine del Settecento, deteneva la sovranità di questo piccolo feudo (circa 350 ettari) nelle alte vallate del Biscubio (fossi del Fumo e della Lastra). Era una zona povera, completamente agricola, in cui vivevano 60-70 persone in una decina di abitazioni. Gli interessi del conte Ubaldini erano esercitati in luogo da un “commissario” che, nel 1781, era il dottor Antonio Stramigioli, residente a Città di Castello, la cui principale occupazione, in merito al feudo, era l’esazione una volta l’anno della “colletta” (la tassa sulla proprietà) e la consegna della somma (una quindicina di scudi e qualche baiocco) al feudatario o a un suo delegato.
Per fortuna, come leggeremo dalla successiva lettera, il terremoto del 3 giugno 1781 non fece registrare nessuna vittima e anche i danni furono, tutto sommato, contenuti: crollò un edificio (a Spogne, situato al di fuori della Contea del Fumo, in territorio di Pietragialla, in una piccola rata aggregata ai domini degli Ubaldini di Jesi), altri due furono danneggiati, morì un numero consistente di “bestie minute”.


La suddivisione del territorio di Apecchio - elaborazione grafica dell'Autore
Il commissario Stramigioli inviò, qualche tempo dopo il terremoto, una lettera al conte Sebastiano Ubaldini di Jesi e, dopo aver ringraziato per l’invio della patente (lo Stramigioli era stato nominato dal padre del conte Sebastiano, Giovanni Battista, morto in quell’anno, e confermato dal nuovo Conte) ed essersi scusato per non aver ancora fatto subito i dovuti ringraziamenti a causa delle tante beghe occorse, aggiornò il conte Sebastiano sulle vicende legate al terremoto e sugli avvenimenti successivi, sia ad Apecchio, sia al Fumo:
Uno dei primi motivi suddetti fu l’orribile flagello del terremoto, che tuttora si va sentendo, e la prima terribile scossa ci lasciò quasi tutti storditi. In seguito furono le varie incombenze datemi dalla comunità di Apecchio, che mi spedì nel giorno istesso dei tre giugno un messo apposta con l’infausta e dolorosa nuova della totale rovina e desolazione di quella infelice terra, onde mi pregavano che io mi portassi subito da questo Monsignor Vescovo per ottenere la facoltà di potere erigere altari in campagna per essere affatto dirute le cinque chiese dentro la terra con tutte le altre di compagna, onde non avevano ove celebrare i senti sagrifizj nei due susseguenti giorni di Pentecoste, e altro di questo mi diedero molte altre incombenze, le quali mi hanno tenuto e mi tengono tuttora occupato. Pure non creda già Vostra Signoria Illustrissima che in quelli frangenti, ed in quella confusione di cose, che io mi dimenticassi del suo feudo, anzi la seguente mattina spedj un uomo all’oste del Fumo, acciò si portasse da me, dopo aver fatto diligente ricerca di quanto era accaduto nel feudo, a darmene distinto ragguaglio e nel tempo medesimo feci affiggere notificazione al luogo solito che se qualche persona si trovava bisognosa di qualche cosa si portasse da me che avrei procurato a provvedere a suoi bisogni. Con tutto ciò che fossi stati avvisato dal suddetto oste, che nel feudo non erano accadute le rovine degli altri miseri luoghi circonvicini, e che solo tre case erano cadute (cioè una dai fondamenti, che è il podere de Respogni, che è nei confini della giurisdizione di Apecchio con esservi restate sepolte tutte le bestie minute in numero di più di 70, ed essersi però salvate quattro piccole creature, che uscirono miracolosamente dalle rovine coperti di calcinacci; e l’altre più che mezze dirute senza danno però di persone e di bestiame, essendo la prima suddetta casa di pertinenza di Marco Antonio Collesi di Castel Guelfo, e la seconda di Giovanni Andrea Polidori di Pietragialla del territorio di Apecchio, ambedue persone benestanti, e ricche, con tutto ciò dopo tre giorni mi portai in persona a vedere, e per verità non vi trovai altro male, dove con mia somma spavento vidi tutte le altre case di quei contorni e campagne affatto devastate, e cadute dai fondamenti, a segno che il danno che ha sofferto la sola comunità di Apecchio nelle sole case consiste nella somma di scudi novantacinque milia romani tenendo presso di me la perizio giurata stata fatta dal perito mandato da Monsignor Presidente. Fui a visitare la casa caduta alle Spogne, vocabolo il Monte, e siccome il fetore delle bestie si faceva sempre più sentire, procurai di farle tutte bruciare, tanto più che quelle genti circonvicine passavano delle doglianze, che non potevano campare dal fetore. In seguito diedi ordine a tutti i suoi sudditi che già avevano stabilito di portarsi a fare un ringraziamento alla Santissima Vergine delle Grazie in Città di Castello, che venissero a fare una refezione in casa mia, come già vennero, tanto i poveri che i benestanti, e feci dare agl’altri di Apecchio quattro pagnotte a testa, come ancora diedi a tutti i suoi sudditi dopo che ebbero mangiato, e che partirono dalla mia casa, e li feci coraggio a non perdersi d’animo, che si sarebbero aiutati nei loro bisogni, come infatti si è procurato di farli quella carità che si è potuto…
Tornai altra sera di Firenze dove per mio particolare interesse mi sono trattenuto quasi un mese, e mi dicono che tanto nel suo feudo che in Apecchio ed altre parti vicine si seguitano a sentire giornalmente delle scosse, e che alle volte sono molto gagliarde di maniera che quel povero popolo sta sempre più impaurito…1


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1Biblioteca Planettiana di Jesi, Archivio Ubaldini, b. 15, 16, lettera di Antonio Stramigioli, Apecchio, al conte Sebastiano Ubaldini a Sassoferrato, Città di Castello, 30 settembre (?) 1781. 

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